giovedì 29 marzo 2012

BAGNASCO AI POLITICI: "ANDATE CONTROCORRENTE"

Il presidente della Cei ha celebrato una messa per deputati e senatori, invitandoli a essere anticonformisti e a non lasciarsi omologare

ANDREA TORNIELLI
 


«Oggi bisogna andare controcorrente rispetto al pensiero unico…». Lo ha detto questa sera il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, nell’omelia della messa celebrata per i politici nella basilica di Santa Maria Sopra Minerva.


Bagnasco ha commentato la lettura che aveva presentato i tre ragazzi che non si sono piegati all’ordine del re Nabucodonosor, che li voleva piegare all’idolatria, e hanno preferito affrontare la fornace venendo preservati dalle fiamme. «Oggi, di solito – ha detto il cardinale – non si deve rischiare la vita per scegliere la verità dei principi, per essere coerenti con la verità delle cose. Si tratta piuttosto di andare controcorrente rispetto al pensiero unico, alle opinioni dominanti che in nome del rispetto e della tolleranza uccidono la verità e con essa fanno danno all’uomo».– ha aggiunto Bagnasco – quando non sottostiamo alle letture vincenti quando non ci convincono, e quando non lasciamo omologare. Il credente è non conformista quando non ha paura di rimanere solo in compagnia della verità, l’unica che paga veramente perché fa grande la coscienza. Quando non fugge e non si nasconde di fronte alle immediate e corali patenti di fanatismo, di intolleranza o di mentalità retrograda».

«Si è anticonformisti – essendo plurale – impone linee mediane». Ciò «è vero e giusto in moltissime questioni», ha osservato, «ma se questo principio pratico si volesse applicarlo ovunque e comunque, anche alle evidenze universali e ai valori morali, alle linee portanti della natura umana, allora viene azzerato ogni punto di riferimento, il piano si inclina e si giunge ad autorizzare la barbarie rivestita di umanesimo e di fratellanza».

Il presidente della Cei ha quindi osservato come oggi si dica che «bisogna vivere nella storia e che questa – ha spiegato Bagnasco – che non esistono valori assoluti, cioè validi per tutti e per sempre, poiché tutto sarebbe cultura e storia; appartiene però alla coscienza universale un "no" netto ad azioni o fatti aberranti giudicati come male assoluto, come il commercio dei bambini, la schiavitù e altro…, di cui neppure si deve discutere perché su certe mostruosità non si fa accademia. Bisogna, però, essere umili e vigili, perché lentamente ci si abitua a tutto: spesso basta ripetere in modo ossessivo la menzogna perché appaia vera».

«Si dice – ha concluso – si osa eccepire o dire il contrario, spesso nascono clamori scandalizzati come si fosse toccato dei nervi scoperti, e così facilmente si crea un clima intimidatorio che spinge a diversi consigli, in apparenza più aperti, ma in realtà pavidi rispetto alle reazioni urlate, o verso i compagni di viaggio».

«Quando, nel pubblico dibattito – ha concluso – si osa eccepire o dire il contrario, spesso nascono clamori scandalizzati come si fosse toccato dei nervi scoperti, e così facilmente si crea un clima intimidatorio che spinge a diversi consigli, in apparenza più aperti, ma in realtà pavidi rispetto alle reazioni urlate, o verso i compagni di viaggio».

MONTI RIPRISTINA LE COMMISSIONI BANCARIE

Ricordate le dimissioni in massa dell'ABI... con i Montiani subito pronti a evidenziare come "Monti ha scontentato le banche" (dopo avergli fatto diversi generosi regali, come l'abbassamento a 1.000€ della soglia per i pagamenti contanti.... EBBENE, è STATO TUTTO UN BLUFF: le commissioni bancarie sono state ripristinate!!! MA I MASS MEDIA CHE HANNO FATTO I CARTELLONI PER DIRE CHE ERANO STATE ELIMINATE, NON EVIDENZIANO CON LA STESSA FORZA CHE SONO STATE RIPRISTINATE... w la massmediocrazia!
Staff nocensura.com
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di Francesco Tempesta


La settimana scorsa il Consiglio dei Ministri ha deliberato un decreto legge volto a correggere l’emendamento al decreto sulle liberalizzazioni, che annullava le commissioni bancarie a fronte della concessione di linee di credito.


I consumatori erano già pronti a esultare, ma saranno costretti a raffreddare gli entusiasmi. Dopo lunghe discussioni fra il Governo e il Parlamento, scaturite dalle minacce di dimissioni dei vertici dell’Abi, il Consiglio dei ministri ha, infatti, varato un decreto legge destinato a correggere l’emendamento al decreto sulle liberalizzazioni (presentato al Senato dal Pd e approvato a Palazzo Madama), che azzerava le commissioni bancarie per la concessione di prestiti e affidamenti.

Venerdì scorso il Consiglio dei ministri ha dato il via al decreto legge, volto a neutralizzare l’emendamento che rendeva nulle tutte le commissioni bancarie a fronte della concessione di linee di credito. Il nuovo decreto, che è stato firmato dalle principali forze politiche del Paese (Pd, Pdl e Terzo Polo), ha l’obiettivo d’impegnare il Governo a “emanare in tempi rapidi” un provvedimento finalizzato ad annullare le commissioni bancarie, solo per gli istituti che non si conformano alle regole di trasparenza stabilite dal Comitato interministeriale per il Credito e il Risparmio (Cicr). L’azzeramento delle commissioni si configurerebbe in tal senso come una sorta di “punizione” per le banche suscettibili di aver adottato una politica creditizia poco trasparente. Le commissioni sono da considerarsi nulle, anche nel caso in cui esse dovessero superare la soglia dello 0,5% trimestrale.

Nel decreto, varato a pochi giorni dall’approvazione definitiva del decreto sulle liberalizzazioni, è stata inserita anche una norma per facilitare l’accesso al credito del sistema produttivo e, in particolare, delle Pmi. Tale misura ha l’obiettivo di “rendere più efficienti le procedure di erogazione dei finanziamenti da parte delle banche”. A tal scopo, è stato definito un meccanismo di controllo non invasivo, in carico ad un ufficio pubblico tecnicamente qualificato. L’Osservatorio, che si avvarrà delle strutture ministeriali già esistenti, potrà, per esempio, attivarsi per richiedere un riesame da parte della stessa banca di sue decisioni negative o formulare raccomandazioni volte a migliorare i processi di verifica del merito del credito. Infine, qualora ne abbia delle prove, l’Osservatorio potrà segnalare all’Autorità garante per la concorrenza ipotesi di intese o pratiche concordate, lesive della libera concorrenza sul mercato. Per poter svolgere tali funzioni, l’Osservatorio avrà “il potere di richiedere informazioni alle banche e la possibilità di avvalersi della collaborazione della Banca d’Italia”.

lunedì 26 marzo 2012

CENERENTOLA ERA NAPOLETANA.

Uno dei poeti più famosi al mondo ma meno famoso dalle nostre parti è quel Giambattista Basile che nel seicento fu autore de "Lo cunto de li cunti" o "Pentamerone", una raccolta di 50 favole scritte in una lingua napoletana affascinante, colorata e barocca. Tra queste favole spicca quella della "Gatta Cenerentola", scritta evidentemente prima di quelle successive di Perrault, dei fratelli Grimm o di quella rielaborata da Walt Disney. Siccome il Basile nacque e morì a Giugliano nei pressi della capitale del vicereame, quando scrisse di quello scalone e di quella scarpetta che "Cenerentola" smarrisce nella sua fuga notturna, stava immaginando quello scalone collocato all'interno del Palazzo Reale di Napoli e che, più o meno, ha conservato la sua struttura originaria. Da circa quattro secoli manca su quelle scale un avviso che ricordi semplicemente una notizia : " Su queste scale Cenerentola perse la sua scarpetta". E i danni di questa assenza incidono sulla cultura ma anche sugli aspetti turistico-economici in modo rilevante.
Ma "grazie" alla campagna anti- Regno, o se volete filo savoiarda, di Benedetto Croce (il peggior nemico, unitamente a suo zio Spaventa, che abbiano avuto i duosiciliani), che accusava di "municipalismo" o di "localismo" o di "regionalismo" tutti i più grandi "pensatori" (artisti, poeti, scrittori, filosofi) napoletani, questi furono messi ai margini della storiografia, ignorati e dimenticati.... ed il fenomeno è, ahimè, ancora attuale! Le tesi di Benedetto Croce mirate a cancellare, mistificare o ridimensionare all'ambito anche folkoristico, la grande e gloriosa storia di Napoli e del Regno delle Due Sicilie, saranno seguite supinamente senza cambiarle di una virgola per decenni da intellettuali e storici ufficiali, che rappresentano il vero nemico di chi cerca il riscatto di Napoli e del Sud.

Liberamente tratto da "I peggiori 150 anni della nostra storia" di Gennaro De Crescenzo (Editoriale Il Giglio-Napoli 2012)

Aereoporto di Salerno Costa D'Amalfi: l'ennesimo flop di Cirielli.

Pensavo che avrebbero fatto la settima inaugurazione dell'aeroporto; invece contemporaneamente si annunciava l’arrivo di 50 milioni e il blocco per la fine del rapporto con Alitalia. È tanto difficile ottenere la concessione definitiva e promuovere un bando di gara internazionale per scegliere un gestore, demandando all’aggiudicatario anche gli oneri per l’allungamento della pista? Attiveremmo così uno splendido aeroporto in un anno. Invece abbiamo buttato al vento altri tre anni; però è stato sistemato qualcuno che dovevamo sistemare al Consorzio Aeroporto.

sabato 24 marzo 2012

Caro De Magistris, non stai facendo cinema


Ciao Dem, ormai ci hai veramente preso gusto. "Stai pariando", come si dice in dialetto, ma fare il sindaco di una città come Napoli esige serietà e lavoro a fari spenti (come fare il magistrato, del resto, ndr) e non un continuo spot per apparire piacione. Non perdi occasione per farti vedere in tribuna vip allo stadio vicino a De Laurentis, se viene Peppe Savoldi sei il primo a farti fotografare e poi...ti lanci pure in video che sembrano parodistici - ma, purtroppo, sono originali - rivolgendoti con confidenza a personalità dello star system che non sanno neppure chi tu sia. Ora si scopre che, d'ora in avanti, tutti i venerdì, andrai in radio a tenere una rubrica - praticamente come conduttore e non come ospite - dedicata ai "temi della politica, della musica, dello sport e dell'attualità più in generale", insomma come tuttologo. Non oso pensare cosa farai in occasione delle due esibizioni veliche che si terranno in aprile - ovvero della finta coppa america - e della tappa del giro d'Italia che partirà da Napoli a maggio. Che farai, terrai una rubrica con Cino Ricci sul mondo della vela e andrai a testare la tappa con Davide Cassani, o ti limiterai a salire in bici facendo un giro su una delle tante piste ciclabili che hai promesso? Quando eri pubblico ministero, i tuoi colleghi ti chiamavano in amicizia "Gigino O' Flop" perché non sei mai stato capace di vincere un processo in vita tua, cerca ora di prendere con più serietà la carriera politica. Napoli non ha bisogno dei "tombini mobili" che verranno rimossi dopo la settimana di esibizioni veliche né di spese folli inutili fini a se stesse. Due sono le priorità di cui devi occupare: a) Smetterla di mandare i rifiuti in Olanda alla faccia del contribuente e trovare una soluzione definitiva; b) Avviare le bonifiche per Bagnoli. Ne sei capace o preferisci concorrere per l'Oscar?

giovedì 22 marzo 2012

Il diritto di odiare la Fornero.

Lasciateci almeno il diritto di odiare chi ha avuto tutto dalla vita e ora decide, senza alcuna coscienza, delle vite di chi lavora per pochi spiccioli. Sì, ora che i nostri competitors sono i paesi emergenti in cui il lavoro non costa nulla ed è diventato un must azzerare le tutele, lasciateci almeno questo diritto. Lasciateci il diritto di odiare chi, con le sue lacrime così false, così piemontesi, non mostra alcun pudore quando opera e fa il ministro solo in quanto"moglie di" e non per proprie capacità. Lasciateci odiare una che non si accorgerà mai che la benzina a 2 euro non sta né in cielo né in terra o che Marco Biagi sarà stato pure un brav'uomo, ma la sua riforma è una boiata pazzesca. No, lasciateci odiare la famiglia di cattedratici Fornero/Deaglio e figli, lasciatecela odiare perché è inutile che tiri fuori il curriculum: se non sei "figlio di" all'università non ti ci puoi proprio avvicinare. Lasciatemi odiare lei in luogo di Bruno Vespa e Giuliano Ferrara, le dimostrazioni viventi che in Italia si può mangiare in quantità solo servendo. Lasciateci provare odio perché sarà pur vero che riformare l'articolo 18 che è diventato indispensabile , ma a me fa davvero arrabbiare dover leggere che un giovane di 29 anni (di Scorrano, Lecce, Regno delle Due Sicilie, Europa) si è tolto la vita - senza versare una lacrima eh! - perché non riusciva a trovare lavoro. Già, il lavoro, ossia la prima cosa che al Sud desideriamo mentre al Nord si spartiscono le mazzette

Di seguito parte delle conclusioni alla mia tesi, oggi ho avuto voglia di andarle a ripescare:



L’indissolubile legame tra il diritto e la storia ed, in particolare, tra il diritto civile e l’economia, fa emergere sempre più -nel nostro tempo- l’influsso delle dilaganti crisi economiche del mondo occidentale e della globalizzazione dei mercati. Il nuovo verbo della “flessibilità” costituisce tematica di grande momento ed induce, in modo crescente, il legislatore a fare marcia indietro su consolidate garanzie dei lavoratori, per consentire al mondo dell’impresa di reggere alla concorrenza dei c.d. paesi emergenti, ancora storicamente privi di sistemi di protezione giuridica e sociale che, inevitabilmente, innalzano i costi del mercato del lavoro. A fronte di ciò si assiste alla demolizione progressiva di taluni capisaldi che hanno informato il diritto del lavoro nostrano dagli anni ’70 ad oggi, con sempre più frequenti e ripetuti tentativi di abrogazione o di sostanziale modifica dell’art. 18 St.lav. ed il crescente favor del legislatore per la contrattazione a termine, ampliata a dismisura e del tutto sganciata dal rapporto a tempo indeterminato sino ai più recenti interventi legislativi della l. /2010 (collegato lavoro).
Tanto influisce indirettamente anche sull’esercizio del potere disciplinare e sul sistema delle attuali garanzie che, nell’ottica de iure condendo in cui sembra muoversi la legislazione giuslavorista, finirà per doversi giocoforza raccordare soprattutto per quel che riguarda le conseguenze giuridiche dell’uso illegittimo o invalido del potere disciplinare.

Tuttavia in tempi in cui il legislatore, costretto dall’incombere di crisi finanziare senza precedenti, sembra preferire il piccone allo stiletto, il rischio che vengano di colpo cancellati importanti pagine del diritto del lavoro italiano ed una tradizione interpretativa che ha attraversato il pensiero trentennale di dottrina e giurisprudenza, costituisce un serio rischio d’involuzione della nostra civiltà giuridica.

mercoledì 21 marzo 2012

Poeti e scrittori meridionali del '900 cancellati dai programmi per i licei

di Roberto Russo
Rivoluzione silenziosa della riforma Gelmini: i grandi del XX secolo scompaiono dalle lezioni


«Ognuno sta solo sul cuor della terra/ trafitto da un raggio di sole/ ed è subito sera». Li avete riconosciuti? Ma certo. E come si potrebbero dimenticare i versi del siciliano Salvatore Quasimodo, uno dei padri dell'ermetismo, vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1959? A rileggerle oggi quelle parole malinconiche ancora emozionano. Per non parlare di Uomo del mio tempo. «Sei ancora quello della pietra e della fionda uomo del mio tempo…», e così via. Capolavori in versi celebrati in tutte le antologie letterarie del Novecento, ad esempio da critici e storici della letteratura del calibro di Natalino Sapegno, tanto per limitarci a un nome soltanto. Eppure Quasimodo (e non solo lui) è scomparso definitivamente insieme a una pattuglia dei principali poeti e scrittori meridionali del Novecento dai programmi scolastici dei licei italiani e degli istituti superiori in genere. Intellettuali del calibro di Sciascia, Vittorini o Silone diventeranno illustri sconosciuti per gli studenti della generazione 2.0 Impossibile? No, vero, verissimo.
IL DOCUMENTO - La decisione è stata presa nel silenzio generale, e messa nero su bianco, nel 2010 da una commissione di esperti nominata dal ministro dell'Istruzione di allora Maristella Gelmini. Il documento ministeriale, partorito nei giorni della riforma, (ancora disponibile sul sito del Ministero dell'Istruzione) appare a tratti ancor più ermetico dei versi di Quasimodo. Ve ne proponiamo solo il titolo per intero: «Indicazioni nazionali riguardanti gli obiettivi specifici di apprendimento concernenti le attività e gli insegnamenti compresi nei piani degli studi previsti per i percorsi liceali di cui all'articolo 10, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 15 marzo 2010, n. 89, in relazione all'articolo 2, commi 1 e 3, del medesimo regolamento». In pratica sono le linee guida destinate ai docenti per il cosiddetto «curricolo»: serve a definire i fondamentali degli insegnamenti che il Miur (il Ministero dell'istruzione dell'Università e della ricerca scientifica) ritiene strategici per gli studenti delle scuole superiori.
I «SOLITI» CLASSICI - Nelle indicazioni «imprescindibili» per la letteratura del quinto anno gli esperti ministeriali si mantengono sul classico e nel periodo tra Ottocento e Novecento inseriscono Pascoli, D'Annunzio, Verga e Pirandello, autori giustamente definiti «non eludibili». Ma la sorpresa arriva al XX secolo. Qui chiarisce il papello ministeriale «il percorso della poesia, che esordirà con le esperienze decisive di Ungaretti, Saba e Montale, contemplerà un'adeguata conoscenza di testi scelti tra quelli di autori della lirica coeva e successiva (per esempio Rebora, Campana, Luzi, Sereni, Caproni, Zanzotto, …). Il percorso della narrativa, dalla stagione neorealistica ad oggi, comprenderà letture da autori significativi come Gadda, Fenoglio, Calvino, Primo Levi e potrà essere integrato da altri autori (per esempio Pavese, Pasolini, Morante, Meneghello…)». Stop. Nient'altro. E il povero Quasimodo? Dimenticato, forse. Ma, insieme al premio Nobel, l'oblio ministeriale ha mietuto - come dicevamo - altre vittime illustri: il salernitano Alfonso Gatto (A mio padre: «Se mi tornassi questa sera accanto, lungo la via dove scende l'ombra…»); oppure il materano Rocco Scotellaro («È fatto giorno, siamo entrati in giuoco anche noi, con i panni e le scarpe e le facce che avevamo»). E che dire poi in letteratura delle assenze del siciliano Leonardo Sciascia, dell'abruzzese Ignazio Silone, del potentino Leonardo Sinisgalli, del siracusano Elio Vittorini (ma anche del torinese Carlo Levi). Tutti «minori»non degni dell'attenzione ministeriale?
«COMPLOTTO» NORDISTA? - È indignato Pino Aprile, scrittore meridionalista, autore del fortunato «Terroni». Nel recente libro «Giù al Sud» ha dedicato un intero capitolo alla vicenda. Per lui non ci sono dubbi: «Su 17 poeti o scrittori del XX secolo, escludendo Verga e Pirandello assegnati all'Ottocento, non c'è un solo meridionale. C'è stato un netto rifiuto della cultura del Sud. Gli autori meridionali saranno confinati a realtà regionali, mentre la letteratura vera, quella che conta, sarà quella dell'Italia del Nord, vincente ed europea». Ma è davvero possibile credere a un complotto nordista tra i banchi di scuola, o le nuove indicazioni non sono, più banalmente, il risultato del grande dibattito che da anni divide i critici sulla letteratura del Novecento? Visto però che a pensar male qualche volta ci s'azzecca, c'è chi ha avanzato una richiesta ufficiale di «correzione», con un esposto all'attuale ministro Francesco Profumo. Ma anche al Capo dello Stato e ai presidenti di Camera e Senato. Semplicissima la richiesta: «Integrare le indicazioni didattiche con i nomi di Quasimodo, Gatto, Scotellaro e di altri intellettuali del nostro Sud e di regioni del Centro Italia poco rappresentate». L'appello arriva dal «Centro di documentazione della poesia del Sud» di Nusco, in Irpinia, dove ieri si è tenuto un convegno proprio sulla questione con la partecipazione di Aprile. Paolo Saggese, uno dei prof che (insieme con Alfonso Nannariello, Alessandro Di Napoli, Franca Molinaro, Peppino Iuliano) anima l'associazione, spiega di non voler alimentare «polemiche o battaglie di retroguardia. O, peggio ancora, una contrapposizioni Nord-Sud».
L'APPELLO - Al contrario l'appello, lanciato anche a tutte le scuole italiane, vuol essere un manifesto per l'unità culturale del Paese. «Perché — argomenta Saggese — una cultura nazionale veramente unitaria deve dare agli studenti la visione completa degli autori, includendo quelli del Sud. Invece con la Gelmini — aggiunge — è stata introdotta, non sappiamo quanto volontariamente, una visione decisamente nordista che tiene fuori almeno 15 regioni». Al ministro Profumo quindi l'ardua decisione. Ritroveremo Quasimodo tra gli autori del Novecento ritenuti «fondamentali» per gli studenti? Oppure, afflitti, dovremo condividere il suo Lamento per il Sud: «Ho dimenticato il mare, la grave conchiglia soffiata dai pastori siciliani, le cantilene dei carri lungo le strade (…) nell'aria dei verdi altipiani per le terre e i fiumi della Lombardia…Più nessuno mi porterà nel Sud….»

http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/arte_e_cultura/2012/19-marzo-2012/poeti-scrittori-meridionali-900-cancellati-programmi-licei-2003739529110.shtml'/

martedì 20 marzo 2012

Garibaldi fuori dal SUD

Non mi risulta che in Israele ci siano piazze intitolate a Adolf Hitler né che in USA gli statisti sovietici abbiano trovano accoglienza. Allora, mi chiedo, perché il SUD è pieno di strade dedicate ai criminali risorgimentali che ci hanno massacrato?
E' tempo di prendere esempio da ENZO SINDONI, il coraggioso sindaco di Capo D'Orlando in Sicilia, e non da gente prona come Luigi De Magistris che ha omaggiato la statua di Garibaldi a Napoli.

Carlo Antonio Gastaldi: un operaio Biellese brigante dei Borbone

Carlo Antonio Gastaldi da soldato dell’esercito piemontese, sceso al sud per reprimere il brigantaggio, diventa brigante della banda del sergente Pasquale Domenico Romano di Gioia del Colle, in provincia di Bari.
Nacque il 7 novembre 1834 in Piemonte a Vagliumina (oggi quarantasei abitanti), piccola frazione di Graglia, in provincia di Biella. Il padre era selciatore, lui cardatore.
Nel 1855 fu arruolato in fanteria. Combattè contro gli austroungarici a Palestro, meritandosi una medaglia d’argento. Ma la vita militare non era per lui. Venne condannato più volte, dal Tribunale di guerra, al carcere. Due volte fu graziato dal re piemontese.
Il 1861 fu l’anno dell’Italia “unita”. L’esercito piemontese, per unire il sud al regno sabaudo, scese nell’ex Regno delle Due Sicilie con un’imponente armata per combattere la Resistenza del popolo meridionale. Anche Carlo Gastaldi, numero di matricola 17056, nel “Corpo Cacciatori Franchi” del 16° Reggimento di Fanteria, IV Battaglione, partì per dare la caccia ai “briganti”.
Fu prima a Taranto e poi a Brindisi. Nelle Puglie era in atto una delle più grosse rivolte contadine, capitanata da Pasquale Domenico Romano, ex sergente dello sconfitto esercito borbonico e ora comandante generale, nominato dal Comitato borbonico segreto di Gioia del Colle.
Un grande successo della banda brigantesca del sergente Romano, che contava oltre 200 uomini sotto la bandiera bianca gigliata borbonica, fu la riconquista di Gioia del Colle, suo paese natale, avvenuta il 28 luglio 1861. Ma la vittoria durò poco. La vendetta dei piemontesi fu terribile. Secondo quanto si dice nella tradizione popolare furono massacrati 150 rivoltosi.
Intanto Carlo Gastaldi, per aver venduto due mazzi di cartucce ed una coperta da campo viene prima rimesso in prigione e poi destinato per “cattiva condotta” al Corpo disciplinare di Finestrelle (Torino). Ma durante il trasferimento, sotto scorta dei carabinieri, nella notte tra il 17 ed il 18 novembre 1862, nei pressi di Fasano, riesce a scappare. Viene dichiarato disertore per la terza volta.
Abbandonato l’esercito piemontese, mentre era alla macchia incontra i briganti del sergente Romano e si arruola con loro. Erano povera gente come lui.
Entra subito nelle simpatie del comandante Romano, diventandone amico e confidente, una specie di segretario-luogotenente. E non solo. Il Gastaldi ottiene anche le confidenze più segrete ed intime del Comandante: personali ed amorose. Perso l’amore di Lauretta d’Onghia, Enrico La Morte (era questo il nome di battaglia che si era dato il sergente Romano) si consolava come poteva con altre ragazze che incontrava nelle masserie che lo ospitavano.
Il Gastaldi partecipa attivamente a tutte le scorribande brigantesche del Romano. Il 21 novembre 1862 si ottiene la vittoriosa battaglia di Carovigno. Il giorno dopo viene assaltata la masseria Santoria, a cinque chilometri da Torre Santa Susanna, dove viene sequestrato il massaro Giuseppe de Biase, vecchio liberale, che poi verrà ucciso. A queste azioni partecipa anche il comandante Cosimo Mazzei di San Marzano, detto Pizzichicchio, che aveva unito la sua banda a quella del Romano. Nei giorni successivi si è ad Erchie, Avetrana, Grottaglie, Massafra, Mottola.
La mattina del 24 novembre 1862 la banda Romano si acquartiera nel bosco delle Pianelle, nei pressi di Martina Franca, che già nei primi anni del secolo era stato la base per le imprese del prete brigante don Ciro Annicchiarico. Da qui il Romano manda dei corrieri in Basilicata per proporre un’intesa al capobrigante Carmine Donatelli Crocco. Ma non se farà niente.
Il 1° dicembre 1862 la compagnia fa sosta alla masseria dei monaci di San Domenico. Sono presenti tutti i comandanti delle bande del Salento e del Barese. Nella notte i piemontesi sferrano un attacco di sorpresa. E’ una disfatta per i briganti. Ne muoiono in tanti; muore anche il comandante Giuseppe Nicola La Veneziana, vengono feriti Pizzichicchio e Quartulli. Molti fuggono. Pasquale Romano, che con 40 uomini era andato alla ricerca di provviste e foraggio, non partecipa alla battaglia. Si salva anche Carlo Gastaldi.
I comandanti superstiti decidono di sciogliere la compagnia e prendono strade diverse. Il Romano rimane alle Pianelle con una quarantina dei più fedeli: tra questi vi è Carlo Gastaldi.
Curati i feriti e recuperati i fuggiaschi dispersi, dopo qualche giorno si parte per la masseria Santa Chiara di Noci. Qui il Gastaldi consegna al prete don Vito Nicola Tinella (che si trovava lì per celebrare una messa ai briganti) una lettera da far recapitare ad un fratello che si trovava a Napoli. Ma il prete anziché spedirla, apre e legge la lettera, che strappa poi in quattro pezzi e si mette in tasca. La lettera verrà consegnata dallo stesso don Tinella alla polizia, che lo aveva arrestato, a dimostrazione che non aveva voluto collaborare con i briganti.
Nella lettera, in realtà indirizzata al padre, Gastaldi tra l’altro parlava delle battaglie vittoriose degli uomini capitanati dal Romano, che non erano «briganti come erano spacciati».
Dopo varie scaramucce con i piemontesi, il sergente Romano decide di ritirarsi con i pochi a lui rimasti fedeli nel bosco di Vallata, nei pressi del suo paese Gioia del Colle. La sera del 6 gennaio 1863 i piemontesi circondano il bosco. E’ la fine. Ventidue “briganti” restano uccisi sul campo, Tra essi il sergente Pasquale Domenico Romano. Pochi si salvano, o facendo finta di esser morti, o dandosi alla fuga. Tra gli scampati vi è Carlo Gastaldi, che qualche mese dopo, con la speranza di aver salva la vita, si consegna ai piemontesi a Bari. Subisce due processi; nel primo per fatti inerenti al brigantaggio viene condannato a 15 anni, nel secondo per la diserzione la condanna è di 18 anni di lavori forzati. A seguito di questa sentenza il Gastaldi viene radiato definitivamente dall’esercito. E’ l’ultima notizia che abbiamo di lui: poi più nulla.
Ma il Gastaldi merita di essere ricordato, se non altro perché ebbe il coraggio di schierarsi al fianco del più idealista dei “briganti” del Mezzogiorno.
Gustavo Buratti, grande studioso delle minoranze linguistiche esistenti in Italia, scrive la storia del Gastaldi in dialetto piemontese con traduzione italiana a fronte. Nella traduzione ho notato qualche inesattezza, specialmente dal punto di vista geografico sui paesi pugliesi.
Mi piace chiudere la mia recensione con un passo tratto dalla nota di edizione che introduce il libro: «Il Piemonte non sono solo i Savo­ia, sono anche e soprattutto i Gastaldi, i contadini delle Langhe, del Cuneense, delle sue campagne. Sono i Nuto Revelli, i Gustavo Buratti». E con loro e tramite loro è possibile un incontro tra Nord e Sud.
In appendice al libro sono elencati, con brevi cenni biografici, 169 (centosessantanove) uomini della banda Romano.
Rocco Biondi

Gustavo Buratti, Carlo Antonio Gastaldi - Un operaio Biellese brigante dei Borboni, Qualecultura (Vibo Valentia) - Jaca Book (Milano), 1989, pp. 100

La’ndrangheta e i briganti Due storie separate in casa

Corrado Alvaro nel 1925 scriveva che «i forestieri, quando si ricordano della Calabria, parlano sovratutto dei briganti. Ma, per la verità, pochi sanno che cosa sia stato veramente il brigantaggio e come sia nato». Oggi un forestiero che si dovesse ricordare della Calabria parlerebbe della strage di Duisburg dove furono uccise sei persone di San Luca, il comune dov' era nato Alvaro, o della riunione di 'ndrangheta svoltasi nel settembre 2009 sempre a San Luca sotto la statua della Madonna della Montagna nel santuario di Polsi, nel cuore dell' Aspromonte, santuario e Madonna sacri per gli 'ndranghetisti. Molti sono convinti che la 'ndrangheta sia una filiazione del brigantaggio, che i picciotti siano i figli legittimi, gli eredi naturali dei briganti. E' così? Per rispondere dobbiamo andare indietro di 150 anni e vedere cosa successe nei primi anni dopo che l'Italia fu unita. Garibaldi sbarcò in Calabria all'alba del 19 agosto 1860 a Melito Porto Salvo, a due passi da Reggio Calabria. Senza bisogno di combattere, perché l'esercito borbonico si liquefece come neve al sole, attraversò la regione come un fulmine. Poco prima di arrivare in Basilicata, il 31 di agosto, a Rogliano emanò un decreto di poche righe: «Gli abitanti poveri di Cosenza e Casali esercitino gratuitamente gli usi di pascolo e di semina nelle terre demaniali della Sila. E ciò provvisoriamente sino a definitiva disposizione». Era arrivato preceduto da buona fama per quello che aveva fatto in Sicilia con il decreto del 2 giugno con il quale aveva stabilito che i combattenti per la libertà avrebbero ricevuto in compenso quote di terra del demanio pubblico. I contadini calabresi accolsero Garibaldi sventolando le bandiere tricolori. Speravano in un cambiamento delle loro condizioni di vita e Garibaldi, con il decreto di Rogliano, pareva aver compreso il problema.
Il decreto era un compromesso perché conteneva il dissenso contadino emergente senza toccare l'essenza della questione della proprietà delle terre. Da parte loro i proprietari, i baroni della Sila, erano in allarme. A Savelli, prima ancora dell'arrivo di Garibaldi, il 16 agosto, i contadini avevano invaso le terre comunali sospinti dal suono delle campane del Santissimo crocifisso. Donato Morelli, che Garibaldi aveva posto a governatore della Calabria Citra, l'attuale provincia di Cosenza, a distanza di cinque giorni emanò un decreto di interpretazione che di fatto annullò l'efficacia di quanto aveva stabilito Garibaldi. Morelli apparteneva a una famiglia accusata di aver usurpato terreni in Sila, e insieme ad altri grandi usurpatori come i Berlingieri, i Barracco, i Lucifero, gli Albani si era schierato contro i Borbone perché tutti ne temevano la politica silana. In provincia di Cosenza avevano dato vita a un comitato liberale che era a tutti gli effetti un «comitato di usurpatori», com'ebbe a scrivere lo storico Antonino Basile. «Gli usurpatori della Sila sono ladri in giamberga». Così li aveva bollati Vincenzo Padula, il prete di Acri che fu tra i primi a sollevare i temi di quella che sarebbe stata chiamata da lì a poco questione meridionale. I proprietari terrieri avevano paura dei «comunisti », di quei contadini analfabeti che, pur non avendo letto una riga del Manifesto di Marx ed Engels, avevano occupato le terre nel 1848 rivendicandone la divisione, il possesso, la messa a coltura di quelle abbandonate. La questione della terra era stata per lungo tempo sollevata da contadini ridotti in miseria ed abbrutiti. Diomede Pantaleoni, inviato in Calabria, nel 1861 scrisse al ministro dell'Interno Marco Minghetti parole chiare sulla Sila dove esisteva «uno stato sociale che colpendo di povertà soverchia una classe la spinge al delitto e al brigantaggio». C'erano dei rimedi a tutto ciò e li indicava: «un saggio governo debbe operare una riforma sociale ad evitare una rivoluzione sociale». I nuovi governanti non ascoltarono Pantaleoni, preferirono affrontare con le armi i contadini e li bollarono come briganti, un marchio infamante. Fu un tragico errore perché le ragioni del brigante diventarono le ragioni del popolo che aiutò i briganti in tanti modi. Li aiutarono anche borbonici e clericali. Era la seconda volta; già dopo l'invasione francese a inizio secolo la Calabria era stata teatro di un vastissimo brigantaggio che diede filo da torcere ai francesi.
Il brigantaggio fu un fatto di popolo che interessò metà della Calabria, dalla provincia di Cosenza alle attuali province di Catanzaro e di Crotone. E l'altra metà? L'altra metà era estranea al brigantaggio. La provincia di Reggio Calabria aveva ben altri problemi. Il prefetto Giuseppe Cornero scriveva di camorristi che tra il giugno e il luglio 1861 «infestavano in deplorevole modo questa città». Due anni dopo, da Gallico, comune di 5.000 abitanti, si seppe che uno «sparuto numero» di camorristi spadroneggiava al punto che i cittadini si sentivano «minacciati nella vita» e costretti a non parlare e a non fare denunce alle autorità. Emergeva una presenza criminale che agiva sotto traccia, che pochi valutarono nella sua pericolosità sociale perché convinti che fosse composta solo dagli strati sociali più poveri e miserabili. Non calcolarono il mutamento che sarebbe intervenuto nel giovane diventato picciotto quando, bardato dei segni esteriori del suo rango — «fazzoletto annodato al collo, solini piegati, cappellino tondo sotto le cui falde si vede il ciuffo dei bravi» —, prendeva «un'aria spavalda e provocante; e armato dell'indispensabile "mollettone", coltello provvisto di molla a lama chiusa, e del rasoio a manico fermo, s'impone». La descrizione la dobbiamo a un medico di Reggio Calabria, Francesco Melari, che per ragioni della sua professione frequentava tutti gli strati sociali della città. Invisibili per alcuni, erano ben visibili per altri. Nel 1869 le elezioni amministrative di Reggio Calabria furono annullate per brogli elettorali dovuti a una interferenza dei mafiosi che furono utilizzati nella competizione politica. Il primo comune sciolto per mafia! In Aspromonte la 'ndrangheta progrediva utilizzando l'immagine di uno Stato che appariva ed era lontano. Sin da allora — come le altre mafie del resto—si presentava come un'associazione capace di governare territori e di selezionare le classi dirigenti o condizionandole oppure eliminando fisicamente quelli che non s'adeguavano. Le zone di brigantaggio e quelle di mafia non coincidono, sono diverse, non sono sovrapponibili. Sono fisicamente distanti. Nella Sila e nelle terre del latifondo ci furono briganti oppure contadini che occupavano le terre, ma non c'era 'ndrangheta. In Aspromonte ci furono picciotti non briganti, tranne la meteora di Giuseppe Musolino che giganteggiò a fine secolo e fu chiamato «u rre d'Asprumunti ».

Ma allora perché è nata la leggenda della relazione tra 'ndrangheta e brigantaggio? Semplicemente perché tornava comodo agli uomini d'onore, alla perenne ricerca del consenso, ingentilire le loro origini e presentarsi come gli eredi dei briganti che nell'immaginario popolare continuano ancora oggi a godere di una rappresentazione ben diversa da quella che si trova nelle carte dei processi o di polizia dell'epoca. I briganti sopravvivono come uomini tutti d'un pezzo, coraggiosi, giovani che sanno vendicare le ingiustizie e che sanno andare alla macchia per vivere una vita libera e senza padroni. Alla fine del decennio il brigantaggio era pressoché scomparso, mentre la 'ndrangheta spiccava il salto nel nuovo Stato dove sarebbe cresciuta con la complicità delle classi dominanti per giungere sino a noi. I briganti sono confinati nei libri di storia e nei musei, gli 'ndranghetisti hanno invaso l'Italia e il mondo.

Enzo Ciconte

venerdì 16 marzo 2012

Della Loggia: «Pdl in parte contiguo alla camorra» Lo storico: «Caldoro fa bene a smarcarsi. Ma era noto che la sua candidatura non fosse gradita al partito»»

Lo storico: «Caldoro fa bene a smarcarsi. Ma era noto che la sua candidatura non fosse gradita al partito»»



Anche se ieri il governatore Stefano Caldoro, con un intervento sul suo sito Internet, ha cercato di rialzare il tono della discussione sottolineando nell’interesse del Sud la necessità di «uscire fuori dalla logica del teatrino della politica e confrontarsi in maniera unitaria, lasciandoci alle spalle la vecchia politica fatta di divisioni, scontri personali, dichiarazioni che vanno solo sulla stampa per farsi riconoscere», è ormai chiaro che nel centrodestra campano volano gli stracci. Prima lo scambio di battute sulla giustizia tra il commissario regionale del Pdl Nitto Palma e Caldoro. Poi il clamoroso annuncio di quest’ultimo dell’intenzione di costituirsi parte civile in caso di rinvio a giudizio dell’ex coordinatore regionale del Pdl Nicola Cosentino per la vicenda dei falsi dossier. Tutto questo mentre continuano a finire nel mirino della magistratura sindaci «amici». Una situazione oggettivamente pesante sulla quale si esprime lo storico Ernesto Galli della Loggia.

Professore, che succede nel centrodestra campano?
«Non ne so molto. Ma non c’è bisogno di sapere molto perché sono in atto delle risse, delle faide. Finché Berlusconi era sul ponte di comando e il centrodestra era al potere a livello nazionale era conveniente per tutti stare insieme. Ora che Berlusconi ha effettuato un passo indietro e che il potere è svanito ecco venir fuori inevitabilmente le spinte centrifughe».

Il Pdl è entrato in crisi?
«Che dire? I due indiscutibili punti di forza del partito erano il presentarsi come l’antisinistra e lo stesso leader Berlusconi. Ora Berlusconi è lontano dal partito e Alfano, francamente, non dimostra di avere grandi doti aggressive. In Campania, inoltre, la contrapposizione alla sinistra non paga, perché il centrodestra è al governo quasi ovunque».

Caldoro si costituirà parte civile contro Cosentino. La meraviglia?
«Che ci fosse una parte del Pdl che non voleva Caldoro candidato era noto. Ma una cosa simile sta succedendo anche a Palermo, in vista delle elezioni comunali. Il fatto è che tutti i partiti italiani mancano di forte identità etica».

Cosa pensa di Caldoro?
«Mi sembra una persona presentabile. Anche nella composizione della giunta ha dimostrato con la nomina del rettore Trombetti una certa apertura verso la cultura Sembrava in grado di andare nella direzione giusta, vedremo».

Intanto, continuano gli arresti di esponenti del Pdl per presunti rapporti con la camorra.
«Che alcuni ambienti del Pdl campano siano contigui alla malavita organizzata è chiarissimo»
.

Caldoro sta cercando di smarcarsi e di affermare la propria autonomia. Fa bene o, come gli ha ricordato Palma, dovrebbe fare più gioco di squadra?
«Tanti auguri. Ma chi non è dentro a un partito, al massimo può avventurarsi in analisi, che, spesso, sono già azzardate. Lasciamo che sbagli da solo».

Dall’inizio della legislatura il Pd locale ha scelto di non adottare la tattica dello scontro frontale, ma ha sempre cercato di offrire a Caldoro una sponda per consentirgli di essere libero da alcune frange del Pdl che tentano di condizionarlo. Giusto?
«Non so se pagherà, ma sul piano generale mi sembra una strategia giusta. Piuttosto che sfasciare tutto, che cercare lo scontro permanente all’interno dell’istituzione, penso che sia più ragionevole e costruttivo cercare di isolare chi lavora contro Caldoro».

Caldoro è un socialista riformista. È fantapolitica immaginare una sorta di convergenza tra lui e il Pd?
«È un’ipotesi molto fantasiosa».

Gimmo Cuomo

lunedì 12 marzo 2012

Ma la divina commedia di Dante oggi qualcuno la pubblicherebbe?

Sta per realizzarsi la profezia che faccio ogni volta che leggo di attacchi ad un autore per le sue posizioni alternative al pensiero dominante: verrà il giorno in cui anche I promessi sposi di Manzoni e la Divina Commedia di Dante verranno sfrattati dalle scuole in quanto costituiscono un'ingerenza alla laicità delle istituzioni. A dare fondamento a questo timore è l'articolo demenziale pubblicato oggi del corsera ( «Dante antisemita e islamofobo. La Divina Commedia va tolta dai programmi scolastici» ) in cui una cretina, tale Valentina Sereni (mi quereli ove mai mi leggesse: sarò lieto di dimostrare che è scientificamente una cretina), a nome dell'associazione "Gherush92», organizzazione di ricercatori e professionisti che gode dello status di consulente speciale con il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite e che svolge progetti di educazione allo sviluppo, diritti umani, risoluzione dei conflitti" (minchia!), sostiene che la Divida Commedia di DANTE non andrebbe più insegnata nelle scuole in quanto "antisemita, omofoba e islamofoba" (ariminchia!)

Per carità, Dante e Manzoni furono per davvero degli anticonformisti invisi al potere già alla loro epoca, ma, se vivessero oggi, cosa scriverebbero di loro gli organi ufficiali della cultura dominante? Probabilmente quanto sostengono ogni volta che si parla di Brasillach, Pound, Celine o Drieu La Rochelle, ovvero di geni la cui colpa è di essere vissuti nel secolo sbagliato. Sicuramente Il Corriere, la Stampa e la Repubblica scriverebbero che "sono autori xenofobi,antisemiti e omofobi" ai quali non va concesso di presentare i loro libri in un luogo accessibile al pubblico e ne approfitterebbero per raccogliere le firme di intellettuali che si oppongono all'intolleranza. Manzoni, tra l'altro, fu "un cattolico convertito" che invitava il prossimo a fare altrettanto, una provocazione intollerabile per uno stato laico: "Dio perdona tante cose per un'opera di misericordia", roba da matti! Già immagino il portavoce della comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, che - col suo portavoce, Gianni Alemanno - condanna i cattivi maestri e invita a boicottare la presentazione del libercolo di Dante e già vedo le associazioni gay che si raduno in piazza per la solita sfilata e il bacio collettivo patrocinato da governo, regione, provincia e comune. Povero Giovanardi - siccome non è un Lusi qualsiasi e non ruba - ed ha espresso solo un parere personale l'ha dovuto subire sotto casa per davvero il bacio gay collettivo e senza poter chiamare la polizia per stalking nei suoi confronti. La comunità islamica poi, dulcis in fundo, darebbe sfogo alle danze bruciando ogni copia del libro esistente.


Se Dante vivesse oggi, probabilmente farebbe la stessa fine di ogni aspirante scrittore moderno: leggerebbe le recensioni entusiastiche pubblicate da Corriere, Stampa e Repubblica nei confronti dei libri di Veltroni e di Franceschini (aggiungerei volentieri pure Alfano, ma uno che osa scrivere bene del mattone di Alfano davvero non l'ho trovato!), i nuovi Gabriel García Márquez de "noiantri", e cambierebbe mestiere...

Dove finiscono i FONDI FAS? TUTTI AL NORD!


Si ricorda che i fondi FAS sono stanziati dall'Unione Europea solo per il SUD, ma vengono puntualmente distratti dal governo e destinati al Nord.

Anonimous demolisce Equitalia

Giorno a voi Equitalia,

Abbiamo deciso di dimostrarvi tutto il nostro affetto “pubblicizzando” il vostro meraviglioso ed informativo sito inondandolo di richieste, certi che la cosa vi farà piacere.



Siete un’anomalia tutta italiana,un azienda in teoria pubblica che si occupa della riscossione di (presunti) tributi dovuti all’Agenzia delle Entrate,che attuate con una ferocia inaudita e con pratiche quantomeno opinabili.
Impiegate mesi,spesso anni, per le più banali notifiche,facendo così lievitare a dismisura gli interessi dovuti.

A parer nostro inoltre, non potete permettervi di riscuotere agli inadempienti che dimostrino di essere indigenti quel poco che hanno per il loro sostentamento, è immorale e deprecabile.
Molte persone si sono suicidate dopo i vostri interventi invasivi e coercitivi, imposti al fine di riscuotere il guadagno di una vita per motivi talvolta ingiusti!!!

Dovreste applicare la riscossione in modo uniforme e trasparente,eppure è ormai conclamato il fatto che personaggi illustri,con potere politico o comunque “di riguardo” ricevano trattamenti preferenziali e dispari.
Avete poteri smisurati,compresa la facoltà di bloccare beni mobili ed immobili anche in maniera preventiva,e senza nessuna possibilità di verifica o appello da parte dei soggetti colpiti.
Spesso le vostre cartelle esattoriali sono completamente errate ed un onesto contribuente si trova nella spiacevole posizione di dover pagare soldi che NON vi sarebbero dovuti nell’attesa e nella speranza di far luce sugli errori.

Ebbene gli Italiani sono stanchi dei vostri abusi e delle vostre vessazioni e noi come sempre intendiamo dar loro voce.

Avreste dovuto aspettarci.

Vi auguriamo una splendida domenica, sperando stiate apprezzando questo splendido weekend almeno quanto noi.

we are Anonymous
we are Legion
we do not forgive
we do not forget
we still ALIVE!
Expect Us!



Tratto da: Anonymous butta giù il sito di Equitalia | Informare per Resistere http://www.informarexresistere.fr/2012/03/11/anonymous-butta-giu-il-sito-di-equitalia/#ixzz1oqUIfZOX
- Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario!

Non si celebra la propria schiavitù - Mala Unità.

Dai piemontesi alla Lega Nord, un'invasione di figli di Trota.

sabato 10 marzo 2012

"Gesù è nemico del popolo ebraico".

Perché l'Italia è un paese di merda.

In Italia ci sono due categorie di persone: gli stronzi - gente onesta che lavora e paga le tasse - e gli italiani. Purtroppo mio padre, orfano di padre e terzo di sei figli, fa parte della prima categoria. Benché abbia patito un'infanzia di privazioni, è riuscito a laurearsi in ingegneria civile con lode alla Federico II. Subito dopo, è andato alcuni anni a lavorare in Nigeria - come Franco Lamolinara, l'ingegnere che gli inglesi ci hanno fatto uccidere - per permettere anche ai suoi fratelli di studiare. Si alza tutte le mattine presto e torna quasi sempre dopo le 22. Non è mai venuto a vedere una mia partita di basket né ha mai avuto la possibilità di seguirmi tanto. A detta di molti è un bravo professionista, ma non ha mai fatto i soldi. Quando alla Sovrintendenza a Salerno gli hanno bloccato i lavori per poi chiedergli la mazzetta, lui si è sempre rifiutato di pagare e una volta è arrivato persino a denunciare il reato: stava per passare un guaio. Certo, mio padre non mi ha fatto vivere nel lusso, ma nemmeno mi ha fatto mancare nulla. Sapeste come era emozionato quando ci siamo laureati io e mia sorella.

Voglio bene a mio padre, però non gli perdono una grossa colpa: ha reso uno stronzo anche me e mi ha inculcato l'idea che bisogna lavorare ed essere onesti per riuscire a guardarsi allo specchio, una mentalità che - converrete - contrasta non poco con la realtà italiana, ovvero un paese che abbandonerei volentieri al suo destino infame per cercare fortuna altrove se non fosse, appunto, per i miei affetti famigliari.

Alla seconda categoria - gli italiani - appartiene l'altra metà di abitanti. Grazie alle tasse che paga la prima categoria (le seconde più elevate del mondo con le retribuzioni tra le più basse in Europa!), quest'ultimi se la godono senza remore.

Bossi e la sua famiglia ne sono un esempio lampante: non hanno nessun titolo di studio né spessore morale, non hanno mai lavorato e hanno sempre fatto i loro porci comodi coi soldi del contribuente, eppure non esitano a insultare gente come mio padre quale esponente di un Sud mantenuto che vive alle loro spalle.

Certo, di figli di trota ne è pieno il mondo ma nei paesi civilizzati vengono puniti, in Italia funziona diversamente. Infatti in Italia è raro che un delinquente/ parassita la paghi. Callisto Tanzi, Antonio Bassolino, Berlusconi, Dell'Utri e Nicola Cosentino l'hanno sempre passata liscia.

Probabilmente sarà così anche per il leghista Boni e il democratico Penati piuttosto che per la giunta comunale di Parma e Lusi.

Quest'ultimo rappresenta poi un caso paradigmatico: è riuscito a fottersi 20 milioni di euro (del contribuente, ovvio!) senza che nessuno di coloro che si candida a guidare il paese se ne sia accorto. Dopo anni, bontà sua, ha rivelato il fatto: manca poco alla prescrizione del reato.

Altrove - nei paesi più civilizzati - uno come Lusi (o Bassolino, Cosentino, Penati, Boni...) verrebbe lapidato se si facesse vedere in giro, in Italia, invece, anche in questo, funziona diversamente: si va in televisione, si fanno delle allusioni, si fa capire che potrebbe scappare qualche altro nome perché i soldi spariti sono molti di più e, in ultimo, si contratta un'altra candidatura per un seggio sicuro.

Questo, ovviamente, mentre chi appartiene alla tanto vituperata prima categoria, quella degli stronzi onesti che pagano le tasse, fatica ad arrivare a fine mese per mangiare e c'è il boom di suicidi di persone che, vedendo svanire il sogno di una vita migliore e non riuscendo a pagare i loro debiti, preferiscono salvare con questo gesto estremo la propria reputazione.

Ovviamente, però, a suicidarsi non sono mai né i Lusi né i Bassolino né i Penati né i Cosentino che di dignità non ne hanno e così la domanda di fondo di un giovane stronzo come me rimane insoluta: ma veramente vale la pena rimanere in questo paese di merda per stare con la propria famiglia?


P.s. A dirvi la verità non vi ho raccontato tutto: mio padre, per un breve periodo, ha ricevuto un incarico politico di natura tecnica: non percepiva un euro e ha svolto il suo compito - spendendo tante notti a lavorare - nel rispetto degli interessi collettivi senza permettere ad altri di lucrarci. Nessun politico l'ha più richiamato né nessun altro gli ha detto mai grazie.

venerdì 9 marzo 2012

Pompei, il Comune parte civile contro lo stato.

Il sindaco: "Gli amministratori hanno la responsabilità di vigilare e garantire che gli Scavi vengano preservati non solo per il Paese e il suo popolo, ma per l'umanità intera"
Un crollo nell'area archeologica di Pompei

Il Comune di Pompei si costituirà parte civile nei processi che saranno avviati a carico di chi sarà individuato, dalla magistratura quale responsabile dei crolli avvenuti nell'area archeologica.

"Lo sgretolarsi della storia e la necessità di prendersene cura, preservandone anche i frammenti, ci ha spinti a tanto", spiega il sindaco Claudio D'Alessio. E' da quando gli scavi sono stati inseriti nella lista dei siti Patrimonio dell'Umanità, nel 1997, si sottolinea al Comune, "che coloro che amministrano la città di Pompei hanno la responsabilità di vigilare e garantire che essi vengano preservati non solo per il Paese e il suo popolo, ma per l'umanità intera".

"Come amministratori della città di Pompei siamo consapevoli che la mancanza di una manutenzione ordinaria e di una conservazione programmata, per un sito di 109 acri di terra, di cui 50 ettari sotterranei, unita alla sollecitazione di milioni di turisti l'anno, l'assenza di drenaggio conseguente alle intemperie, una vegetazione senza controllo, hanno reso fragile l'intero sistema del Sito Unesco. Ed è proprio per tutte queste mancanze che non possiamo tacere. Abbiamo l'obbligo di rispondere - spiega - con un'azione concreta, e legale, per la tutela dell'immagine di Pompei perché ora non è più tempo di scegliere fra l'antica Pompei e la nuova Pompei".

Con l'approvazione della delibera di consiglio, la città di Pompei "si riterrà parte offesa in tutti i
procedimenti penali pendenti nei confronti dei soggetti individuati come responsabili dei crolli nel sito archeologico della città di Pompei".

la repubblica

La Sicilia che disse addio al feudalesimo

Ricorre quest’anno il 200° anniversario della Costituzione siciliana del 1812 che consistette nel primo esempio italiano di Statuto elaborato da una assemblea costituente e che rappresentò in buona sostanza il primo contributo della Sicilia alla Stato moderno e liberale. Una costituzione che ebbe il grande merito di abolire il feudalesimo e in cui era contenuta la prima formulazione della separazione del potere legislativo da quello esecutivo La costituzione del 1812, sul modello di quella inglese, prevedeva un parlamento bicamerale e non più come lo era stato sino allora tricamerale.
Uno dei padri di quella innovativa Costituzione fu, senza dubbio, Carlo Cottone Principe di Castelnuovo. A lui lo scultore Domenico Costantino, nell’ormai lontano 1873, dedicò la statua che i palermitani possono ancora oggi ammirare nella Piazza che porta il suo nome (anche se i palermitani chiamano Piazza Castelnuovo Piazza Politeama).
Carlo Cottone fu una nobile figura di patriota siciliano che per le sue idee, nel luglio del 1811, venne imprigionato nella fortezza di Favignana. Geloso custode delle prerogative del parlamento siciliano fu anche insigne costituzionalista e, come tale, assieme ad altri, artefice della costituzione del 1812. Infatti, assieme al nipote Principe di Belmonte e all’abate Paolo Balsamo fu il promotore della Costituzione siciliana del 1812, concepita sul modello di quella inglese. Non a caso, a quel tempo, in Sicilia, gli inglesi, con l’autorevole presenza di lord William Bentick, esercitavano la loro notevole influenza politico-economica sui Borboni e Ferdinando finì per accettarla, delegando il potere con funzioni vicarie al principe ereditario Francesco, che, tra i primi atti del suo governo, dopo averlo liberato dal carcere di Favignana, nominò Carlo Cottone ministro delle finanze.
Con la nuova Costituzione fu, come anzidetto, abolito il feudalesimo, la Camera ecclesiastica fu assorbita dalla Camera dei Pari e le città baronali si fusero con quelle reali nella Camera dei Comuni. In materia finanziaria la legislazione spettava ai Comuni. Fu inoltre adottato un sistema giuridico per cui tutti dovevano essere uguali di fronte alla legge e nessuno poteva essere imprigionato senza regolare processo. La tortura fu abolita. La stampa doveva essere libera, tranne per le questioni di ordine religioso. La Sicilia infine sarebbe stata completamente “libera” se il re fosse, un giorno, ritornato a Napoli, visto che l’ordinamento prevedeva che gli subentrasse il figlio maggiore come sovrano indipendente. Allo stesso sovrano era vietato lasciare l’Isola senza il consenso del Parlamento.
In quel lontano 1812 si può senz’altro dire che la Sicilia fu il primo ed unico Stato preunitario a dotarsi di una Costituzione moderna. Una Costituzione di illuminato stampo liberale a cui Carlo Cottone Principe di Castelnuovo diede il suo fondamentale contributo. Grande per questo fu la sua amarezza quando Ferdinando, appoggiato dalle baionette austriache, ritornando a Napoli si rimangiò riforme e Costituzione proclamando il Regno delle Due Sicilie.
Ritiratosi deluso dalla vita politica a Palermo, nella sua tenuta dei Colli, a San Lorenzo, Carlo Cottone, nel 1819, fondò l’istituto agrario, dove assieme a giovani possidenti effettuò interessanti esperimenti sui nuovi metodi agricoli da attuare in Sicilia, come la coltivazione del riso duro, l’allevamento dei bachi da seta ed il trattamento delle più svariate e diffuse malattie delle piante. A questa scuola, fortemente voluta per consentire l’istruzione e l’aggiornamento di suoi contadini, dove sorge oggi il Teatro della Verdura, questo liberale fuori dal tempo dedicò con passione l’ultima parte della sua esistenza.
Gli ultimi anni della sua vita furono pieni di indicibili sofferenze a causa di un male incurabile alla vescica, tanto d’indurlo più di una volta a tentare il suicidio. Si spense il 29 dicembre del 1829, assistito da amici fidati tra cui Ruggero Settimo, cui passò il testimone delle sue idee autonomiste e progressiste affinché portasse a compimento la sua iniziativa politica. Lasciò per testamento 40 mila onze (una cifra enorme per quei tempi) a chi avesse indotto il re restituire alla Sicilia la sua Costituzione. Appropriata la frase scolpita da Domenico Costantino nel lato destro del piedistallo della statua a Piazza Castelnuovo: “Visse quale Catone, morì quale Attico”:

foto tratta da palermodintorni.blogspot.com

Trenitalia, la Puglia isolata da tre mesi La politica in silenzio

Ricordate le promesse della politica all'indomani dell'entrata in vigore del nuovo orario invernale di Trenitalia per bloccare la sciagurata scelta della società ferrovaria di «tagliare» i treni, fermare i convogli a Bologna costringendo i passeggeri pugliesi a cambiare treno all'alba e salire sui lussuosi Frecciarossa per poi arrivare nella stazione di Milano?

Tre mesi dopo (era l'11 dicembre del 2011) quella rivoluzione nel trasporto ferroviario che causa disagi ai passeggeri da e per il Sud, tagliando di fatto in due il Paese, nulla è accaduto. Anche del tavolo, annunciato da Passera a Vendola non si sa più nulla.

Gli incontri dell'assessore regionale Guglielmo Minervini con i vertici delle Fs, la lettera del presidente Nichi Vendola al premier Monti, il vertice di qualche settimana fa di Vendola e Minervini con il ministro dello Sviluppo Passera oltre alle annunciate iniziative a sostegno della battaglia dei cittadini e della Gazzetta (del presidente del Consiglio Regionale e del capogruppo del Pd alla Regione «anche noi insieme ai pugliesi di notte in treno») di fatto non hanno risolto il problema: le tariffe sono rimaste quelle - alte - decise dall'amministratore di Trenitalia Moretti e nulla è cambiato per quanto riguarda la fermata obbligatoria a Bologna cui sono costretti i passeggeri diretti da Lecce e Bari a Milano.

Insomma i tentativi della politica, comprese le campagne di denuncia (sul palazzo del presidente della Regione Puglia sventola ancora quell'enorme cartello «La Puglia non è un binario morto, ridateci i treni»), alla fine sono risultati vani, praticamente un fallimento della politica.

Non sappiamo se ora la promessa del ministro Passera - che lo scorso 22 febbraio fece dichiarare a Minervini e Vendola di aver «trovato un ministro attento, non una controparte ma un interlocutore attento»- di convocare un tavolo, resterà una promessa o si tramuterà in un atto concreto. E soprattutto se con il nuovo orario estivo il ministro avrà modo di imporre a Moretti di ricollegare la Puglia al resto del Paese, cioè «di riequilibrare l’offerta di servizi tra nord e sud del Paese» e soprattutto di abolire il cambio a Bologna. Il ministro sappia che la Puglia non dimentica.

FRANCO GIULIANO

Napoli, un grande regno che finì suicida

La Stampa di Torino tenta, per una volta, di scrivere bene della storia di Napoli, ma lo fa in maniera farsesca - sbagliando persino le date: la rivoluzione partenopea è del 1799 - sostenendo che fu "addirittura più avanti di Torino". Spiace dover rispondere che Napoli fu più avanti nel mondo non solo rispetto a Torino, laddove quest'ultima rimane periferia del mondo, mentre Napoli è stata e sarà sempre capitale e punto di riferimento assoluto. Torino va comparata con realtà del suo livello, non con Napoli, ovvero una delle grandi civiltà della storia. Per farla breve significa che NOI SIAMO NOI E VOI NON SIETE UN CAZZO!



In un libro di Gianni Oliva la "storia negata" dei Borbone: al tempo dei Lumi il loro Stato era più avanti di tutti nel mondo.


"La storia dal punto di vista dei vincitori è sempre arrogante, quella dal punto di vista dei vinti è rancorosa»: così Gianni Oliva, storico dei Savoia e degli Alpini, ma anche fra i primi a indagare senza complessi la tragedia delle foibe quando non era considerato affatto opportuno parlarne, lancia una provocazione che ha per titolo Un regno che è stato grande , in libreria da oggi per Mondadori. È un libro dedicato al Regno della due Sicilie, alla «storia negata dei Borboni», che ne ricostruisce la vicenda dal 1734, quando le «ardite combinazioni della diplomazia europea» fanno sì che Carlo di Borbone, figlio del re di Spagna Filippo V e della seconda moglie Elisabetta Farnese si ritrovi a capo di un regno nuovo di zecca, fino ovviamente al 14 febbraio 1861, quando Francesco II e la regina Maria Sofia abbandonano Gaeta - assai poco rimpianti - su un piroscafo francese che li porterà nello Stato Pontificio.

Non è un libro «revisionista», nel solco di quella pubblicistica cosiddetta neoborbonica che l’anno scorso ha avuto un certo successo dipingendo un Meridione avanzato, ricco, prospero, una sorta di Paese del bengodi saccheggiato dal Nord e ridotto in una situazione di sfruttamento, povertà, disordine sociale. Oliva, semplicemente, riparte dai dati di fatto, e da opere non certo inclini alla propaganda come la Storia del Regno di Napoli di Benedetto Croce. Ne esce un quadro tra luci e ombre, dove però alcuni aspetti essenziali vengono rimessi a fuoco al di là di una certa «vulgata» nordista: per esempio, la grande stagione che nel Settecento fece di Napoli una metropoli internazionale, e del regno addirittura una speranza per i primi intellettuali che sognavano un’Italia unita.

Carlo di Borbone, re di Napoli e di Sicilia fino al 1759 (poi di Spagna fino alla morte), e il figlio Ferdinando I sembrano anzi realizzare un sogno. Fanno del Mezzogiorno uno Stato autonomo, e non solo una sorta di colonia spagnola; avviano riforme ambiziose (riescono persino, almeno in parte, a far pagare le tasse alla Chiesa), contrastano con qualche efficacia i privilegi e gli arbitri baronali, rimodernano il gioiello di Palazzo Reale a Napoli, creano la reggia di Caserta e il teatro San Carlo, scavano a Pompei e Ercolano, radunano intorno a sé una élite intellettuale di primissimo ordine, potenziano l’Università. Tanto che già nel 1736 il piemontese Alberto Radicati di Passerano si rivolge a Carlo invitandolo «a compiere quel che a Torino non si era stati capaci di fare».

La Napoli dell’Illuminismo, come sottolinea Oliva, è indubbiamente più avanti di Torino. È una delle città più importanti d’Europa, ricca e cosmopolita. Politicamente conta poco - anche se nel 1744, durante la guerra di successione austriaca, il neonato esercito borbonico riesce a bloccare le truppe imperiali a Velletri: ed è forse l’unica vittoria sul campo in tutta la storia del Regno -; culturalmente vive una grande stagione, se pure, sul piano amministrativo, le riforme non arrivano a compimento. In certi casi sono troppo ambiziose: per esempio fallisce miseramente, per la rivolta delle gerarchie ecclesiastiche e l’ostilità della popolazione, un coraggioso tentativo di accogliere gli ebrei, stimolandone l’immigrazione per rendere più dinamica l’economia.

Alla fine la modernizzazione resta monca, e non sono sufficienti le prime ferrovie o le strade, o il miglioramento dei porti. Il Regno delle due Sicilie paga così lo scotto quando arrivano i venti della Rivoluzione; la feroce repressione della Repubblica partenopea, nel 1790, decapita - con inusuale ferocia - un’intera classe dirigente, e non basterà il periodo di parziale rinascita dopo il Congresso di Vienna per rimediare a quella che Oliva definisce una «frattura drammatica» che il Nord non ha conosciuto. I primi rintocchi delle campane a morto suoneranno nel 1848, quando Ferdinando II, ancora una volta, non saprà confrontarsi con le rivolte liberali se non usando la dissimulazione e la forca; e proprio l’isolazionismo ora davvero «borbonico» finirà per spingere il pendolo internazionale in favore di Vittorio Emanuele e Garibaldi.

Un regno che è stato grande finisce suicida? «Diciamo che perde la sfida del ‘48», risponde Oliva, «perché si trova ad aver svuotato l’alleanza sociale che aveva reso possibile il riformismo. È proprio a questo punto che scatta il «sorpasso» definitivo e irrimediabile. La storia si farà a Torino. Ciò non toglie che quella di Napoli - e di Palermo - abbia avuto la sua grandezza. «Sicuramente il Nord era più avanti, ma non è che il Sud fosse totalmente privo di una classe media, e neanche di investimenti», conclude Oliva. È questo il senso del suo libro? «La conclusione è che al Sud dobbiamo riconoscere qualcosa. Perché quando è nata l’Italia come Stato unitario, anziché valorizzare il meglio del Mezzogiorno, ci siamo rivolti al peggio». Ma questa è già un altro libro. Forse il prossimo.

Autore: Gianni Oliva
Titolo: Un regno che è stato grande
Edizioni: Mondadori
Pagine: 227
Prezzo: 20 euro

“Trenitalia ammetta che non è in grado di assicurare il servizio in Sicilia”

Riceviamo e volentieri pubblichiamo la lettera del Comitato pendolari siciliani a Mauro Moretti, ad delle Fs.

Alla cortese attenzione dell’ Ing.Mauro Moretti
Amministratore Delegato Ferrovie dello Stato
Egregio Ing. Moretti,
è chiaro che non c’è più alcun interesse da parte di Trenitalia ad offrire un servizio pubblico quantomeno decente in Sicilia.
A questo si aggiunga il perenne scarica barile Stato-Regione che certo non Vi aiuta, anzi… Stiamo subendo soppressioni continue, che si aggiungono ai cronici ritardi. Il tutto spesso giustificato con la mancanza di “materiale”.
Ora scopriamo che a questo si aggiunge la mancanza di “materiale umano”. Sopprimere treni fondamentali per i pendolari perché si è concepito un sistema di gestione del personale ferroviario che non permette la benché minima defaillance degli esseri umani è quantomeno inconcepibile.
Finiamola con questa farsa di orari ferroviari, che risultano solo virtuali. Se non si è in grado di mantenere un minimo di programma che se ne stili uno ridotto. Sappiamo che le colpe non sono solo di Trenitalia. Ma non ci sta bene che a pagare siano sempre i soliti noti, che purtroppo non hanno alternative al treno. Che si applichi la stessa rigorosa efficienza che contraddistingue Trenitalia, non solo nell’inflessibilità quando si trova in difetto, o meglio in difficoltà, il passeggero, ma anche e soprattutto quando si trova in evidente deficit Trenitalia.
Altrimenti sarebbe più onesto dichiarare pubblicamente che Trenitalia non è in grado si assicurare un servizio pubblico in Sicilia. Sarebbe sicuramente un atto di onestà che Noi pendolari apprezzeremmo più di questo gioco al massacro.
Colgo l’occasione per inviarLe
cordiali saluti
Giacomo Fazio
Comitato Pendolari Sicilia
Patto Pendolari Italiani

Borghezio pro Boni: ogni tangentista è bello a mamma sua

Pennacchi: "Cruciani è uno stronzo" e i Marò vanno liberati.

Il Regno delle Due Sicilie e le donne.

Nel 1789, la comunità di San Leucio, destinata a fare scuola, è l'unico posto in Europa in cui tutti gli uomini, di entrambi i generi, o meglio tutti coloro che appartengono a un unico genere, quello umano, hanno pari e identici diritti e doveri. Le femmine lavorano e hanno diritto all'istruzione, pubblica e gratuita, al pari dei maschi. Le prime forme di democrazia sono aperte a entrambi i sessi. Questo grazie alla volontà di re Ferdinando IV di Borbone - Napoli e di Maria Carolina d'Asburgo - Lorena, sua consorte, i sovrani più illuminati del mondo (questo il motivo reale per cui risulteranno invisi a quei liberali degli ambienti borghesi che simularono rivoluzioni di popolo). Il femminismo non è necessario: il codice leuciano non solo prevede che la famiglia non possa metter bocca sulla vita sessuale delle figlie, ma che la scelta del marito spetti unicamente a queste ultime.

Amedeo Francesco Mosca.

Mutui agevolati all'1,57% per deputati e senatori

Le telecamere di "Piazza Pulita" denunciano l'ennesimo grande privilegio della Casta. Non bastavano gli stipendi d'oro, il ristorante a prezzi stracciati, i viaggi a spese dello Stato. Adesso si scopre che hanno agevolazioni anche in banca. I senatori e i deputati possono chiedere un mutuo ventennale a tasso variabile all'1,57% contro una media nazionale del 5% chiesto ai comuni cittadini.
L'inchiesta del programma di La7 è nata da una segnalazione dell'onorevole Franco Barbato, deputato Idv, che si è prestato a filmare con delle telecamere nascoste il colloquio con i dipendenti della Bnp Paris Bas del Senato dove vengono proposte le vantaggiose condizioni economiche. Peccato che queste non valgano per tutti, ma solo per i soliti privilegiati: senatori, deputati, dipendenti della banca e per tutti i loro amici: in questo caso basta essere cointestatario o subentrare ad un mutuo già acceso. "Una pacchia", così lo definiscono sia i dipendenti sia gli stessi onorevoli.

Per un mutuo ventennale a tasso variabile un comune cittadino paga dal 3,30% al 4,50%, per uno a tasso fisso dal 6,10% al 6,50%. Sempre che la banca lo conceda. Per non parlare poi di tutte le varie condizioni richieste all'atto della stipula del contratto. Assicurazione casa integrale obbligatoria da stipulare con la banca, ipoteche sull'immobile da capogiro, garanti e via dicendo. E non esistono liberalizzazioni o concorrenza che tenga. Le banche non prestano denaro a meno che chi lo richiede dimostri di avere supergaranzie e quando lo fanno, il tasso varia dai 3 ai 5 punti percentuali rispetto al prezzo di vendita della Bce, ossia l'attuale 1%.

Situazione completamente diversa per gli onorevoli che possono usufruire di condizioni così agevolate da marcare ancora una volta la distanza con i comuni cittadini che abitano e lavorano lontani dai palazzi del potere.

Scontro tra la madre di de Magistris e Csm

Chiede indennizzo per l'infermità che colpì il marito magistrato, a suo giudizio legata a stress professionale

NAPOLI - Dopo le polemiche degli ultimi anni, tornano a incrociarsi le strade della famiglia de Magistris e quelle del Csm. Il caso, questa volta, non riguarda però il sindaco di Napoli, ma una richiesta avanzata al Consiglio superiore della magistratura nel 2006 dalla madre dell’ex pm, Marzia Russo, e sempre respinta da Palazzo de’ Marescialli. Oggetto della domanda della signora è il riconoscimento di un equo indennizzo per la malattia del marito Giuseppe de Magistris, ex presidente di sezione di corte d’appello morto dopo una malattia che sarebbe dipesa dallo stress professionale, cioè da «cause di servizio».

La richiesta di equo indennizzo avanzata dalla moglie del magistrato fu respinta nel 2006 dal Csm. Che, nel motivare il rigetto della domanda, argomentò per la mancanza di collegamento causale tra il servizio prestato da Giuseppe de Magistris e la malattia che ne determinò la morte. Una lettura che i consiglieri ritenevano «confortata» da una risoluzione in materia dello stesso Csm secondo la quale «il generico riferimento a condizioni di stress lavorativo nello svolgimento di fatto di ordinarie mansioni per le quali il magistrato abbia maturato l’esperienza e la capacità professionale necessaria, non può essere utilmente valutato dal Consiglio per il riconoscimento della malattia come dipendente da causa di servizio». Una lettura ribaltata però un anno fa dai giudici del Tar Campania. Che hanno dato invece ragione alla vedova del magistrato riconoscendo — sulla scorta di una consulenza tecnica d’ufficio — il ruolo giocato dallo stress lavorativo legato alle grosse responsabilità professionali come concausa nello sviluppo della malattia. Una sentenza che ha di fatto costretto Palazzo de’ Marescialli a occuparsi ancora del caso (le pratiche riguardanti i riconoscimenti per equo indennizzo sono competenza della quarta commissione del Csm, presieduta dal magistrato Paolo Enrico Carfì). E ieri, al termine della valutazione della vicenda, è stato il plenum all’unanimità a deliberare che venga chiesto all’Avvocatura di presentare appello al Consiglio di Stato contro la sentenza del Tar della Campania. Due le doglianze. La prima è relativa alla competenza, dal momento che le decisioni prese dall’organo di autogoverno della magistratura possono essere impugnate solo davanti al Tar del Lazio, e dunque i magistrati amministrativi campani non avrebbero dovuto pronunciarsi sulla materia. La seconda invece è relativa al merito, dal momento che la decisione di rigettare la richiesta della signora sarebbe stata una scelta dovuta, poiché il Csm era obbligato a conformarsi al parere vincolante del Comitato di verifica per le cause di servizio, che era negativo. Giuseppina Casella, napoletana, consigliere in quota Unicost, commenta così la decisione del plenum: «È una pratica come ce ne sono tante, ed è solo un caso che riguardi il padre di de Magistris. Non andiamo a scomodare il sindaco di Napoli, mi sembra impegnato in cose ben più serie».

Gianluca Abate

Ma guarda da quale Nord arriva la predica (Lino Patruno).

Ovviamente, gli arrestati e gli indagati sono alla Regione Lombardia ma la vera corruzione è al Sud. Ultimo episodio: il presidente del Consiglio regionale lombardo, Boni (Lega Nord), indagato per una mazzetta di un milione. Non meraviglia che a dirottarla sul solito Sud sia stato il presidente (anch’egli leghista) della Provincia di Varese. Galli. Meraviglia che vi si sia accodato un galantuomo come l’ex ministro Bondi.

Ma si sa, quando si tratta del Sud, una botta ci sta sempre bene. Per tenerlo sotto pressione. Anzi, dopo averle sputato addosso per una vita, Galli ha aggiunto che la magistratura lombarda è superiore a quella del Sud.

Invece le cifre dicono che, a vent’anni da Tangentopoli, tutti i maggiori scandali politico-finanziari d’Italia sono avvenuti al Nord. Diciamo Centro Nord perché un posto d’onore spetta a Roma.

Si può dire che è naturale, visto che lì ci sono i soldi. Si può dire che è strano, visto che se ci sono i soldi non dovrebbero cercarne altri.

Il fatto è che ora la corruzione ha avuto una evoluzione (o involuzione) della specie: non sistema dei partiti, ma roba da manovalanza dei partiti, singoli componenti che sempre più spesso, più che a finanziare il partito, pensano a comprarsi la villa al mare. Caso più clamoroso, il tesoriere dell’ex Margherita, Lusi: fa sparire 13 milioni (trattasi di 26 miliardi di lire) perché, dice, mi servivano e me li sono presi. Alé.

Chiedere a qualcuno di dimettersi, significa fare giustizialismo. Per ora e come sempre tutti si affannano a pontificare che ci vuole una legge anticorruzione, dopo aver avuto vent’anni per farla.

Anzi dopo che l’ultimo governo l’aveva preparata lasciandola però in un cassetto. Un errore, dice onestamente qualche suo componente di spicco. Un orrore che ci voglia una legge (ancòra eventuale) per impedire che si rubi, anche se non potrà impedire che troppo spesso ci si dia alla politica proprio per rubare. Insomma è tremendo dover affidare una etica nazionale alle (ancòra eventuali) sanzioni.

Così si hanno i sondaggi in base ai quali solo l’8 per cento della popolazione ha fiducia nella politica. Diciamolo senza santificare questa mitica società civile tutta piena di buoni sentimenti. E tutta pronta a dire che il problema in Italia è appunto questa classe politica, come se chi la esprime e chi la vota e chi molte volte la difende provenisse da Marte. I delinquenti non sono isolati, sono solo sfortunati in attesa di riciclaggio, questa la verità. Magari non in parlamento, ma un posto in un consiglio di amministrazione con gettone è sempre pronto. La condanna è sempre “quasi”, mai netta. A cominciare da quella morale.

Ora non facciamo i verginelli: la corruzione c’è in tutto il mondo. Che l’Italia sia fra i primi al mondo, è che siamo sempre i migliori di tutti. C’è soprattutto nei Paesi in cui le regole e le leggi sono più blande, diciamo tutte le repubbliche delle banane di questa Terra. E c’è dove, all’opposto, ci sono regimi autoritari, con la corruzione che si annida indisturbata sotto la dittatura che spadroneggia. Ma non c’è bisogno della dittatura. E’ sufficiente che ci sia Stato dappertutto.

Significa diverse cose. Uno: significa una pubblica amministrazione inefficiente e debordante che, invece di facilitare, impedisce. E più passaggi sono necessari per far andare avanti una pratica, più è probabile che i passaggi debbano essere oliati con qualche bustarella.

Due: significa un peso inaccettabile dell’economia nello Stato, come in Italia. Perché, per dirne una, servizi come i bus o la nettezza urbana devono essere gestiti da politici che poi vanno a caccia di soldi anche per farsi rivotare? O politici che abusano del potere per assumere il nipote, perché corruzione vuol dire anche clientelismo della raccomandazione più che giustizia del merito.

Tre: significa soldi pubblici a pioggia, e qui c’entra il Sud. Con inefficienza e sottosviluppo che permangono. il politico dice: votami e io faccio arrivare i soldi. E se poi i soldi non li fa arrivare (e non assume questa volta tuo nipote) o è incapace o è poco potente o inadempiente, quindi da non rieleggere. Purtroppo questo è stato quasi sempre il meccanismo di selezione della classe politica al Sud. Non i più bravi (o magari i più onesti) ma i più traffichini, nel senso di bravi a destreggiarsi nel traffico dei denari. Non sorprende che il Sud sia dov’è.

Vedremo ora l’evoluzione del caso Boni. Abbiamo fiducia nella magistratura, dicono tutti. Ma sfortunato il Paese che invece di decidere da sé di non peccare si affida al prete o alla magistratura. E poi, perché la politica non fa piazza pulita da sola invece di far fare alla magistratura gridando poi magari alla persecuzione giudiziaria? Perché un Paese al tramonto si vede anche da questo.

Da: “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 9 marzo 2012

giovedì 8 marzo 2012

Maria Carolina, prima femminista del Regno delle Due Sicilie

Dopo la rivoluzione francese sentì che i suoi vecchi amici giacobini avevano tradito anche il suo femminismo


CASERTA - Maria Carolina d’Asburgo, mo­glie di Ferdinando IV di Bor­bone, femminista ante litte­ram? Potrebbe essere que­sta la chiave giusta per capi­re meglio il doppio volto del lungo regno dei due sovrani del Regno di Napoli. Prima il riformismo, poi la controriforma, quindi la cruenta reazione dopo la rivoluzione del 1799 che Vincenzo Cuoco definì «passiva e senza popolo».

Il femminismo potrebbe aiu­tare a capire meglio dal momento che la fi­glia di Maria Teresa d’Austria fu femminista ben prima della pubblicazione delle opere di Harriet Taylor (moglie di John Stuart Mill) come «Sul matrimonio e il divorzio» (1832 ­1833), «Sul matrimonio» (1932 - 1833), «L’eman­cipazione delle donne» (1851) e «L’asservimen­to delle donne» (1861). Riporto le date perché sono importanti: è del 1789, infatti, l’uscita in 150 esemplari del testo «Origine della popo­lazione di S. Leucio e suoi progressi fino al giorno d'oggi colle leggi corrispondenti al buon governo di essa».

A firmare il testo è Fer­dinando, ma l’autore del «Codice delle leggi» fu probabilmente il giurista e massone Anto­nio Panelli, protetto da Carolina, però non c’è dubbio che chi volle, ispirò e guidò la scrittura del Codice fu proprio Maria Caroli­na perché in quei cinque capitoli e ventidue paragrafi va in scena «una rivoluzione giuri­dica in chiave di genere» che non sembra ab­bia precedenti nella storia della cultura occi­dentale. Leggendo lo Statuto leuciano si ha l’im­pressione che l’eguaglianza è rivendicata so­prattutto al fine di affermare l’eguaglianza tra donne e uomini e l’eguaglianza di genere è al centro della Colonia di San Leucio e del suo sistema familiare ed economico. Se si considera che la Rivendicazione dei diritti della donna della prima scrittrice femmini­sta dell'età moderna, Mary Wollstonecraft, fu pubblicata a Londra nel 1792, si capisce perché si potrebbe con legittimità definire Maria Carolina «la prima femminista moder­na». Ma poi venne il Novantanove con tutto ciò che comportò: la dura reazione e il san­gue a fiumi. La studiosa italiana più versata nella cono­scenza della vita, del pensiero e dell’opera di Maria Carolina è la storica Nadia Verdile (in­segna materia umanistiche proprio a San Leucio ed è cultrice della materia presso la Federico II) che ha dedicato alla «politica» della moglie di Ferdinando Re Nasone non pochi saggi e tra questi anche la pubblicazio­ni di lettere inedite dei due sovrani: Un an­no di lettere coniugali. Da Caserta «il carteg­gio inedito di Ferdinando IV con Maria Caro­lina» (Spring Edizioni 2008) e «Caspita qui non si scherza! Lettere da Capri di Ferdinan­do IV a Maria Carolina» (Spring Edizioni 2009).

Ora è uscito «Utopia sociale, Utopia economica». Le esperienze di San Leucio e di New Lanark (Danape) - con prefazione di Ruggero Guarini - e si confrontano le due «comunità utopiche»: quella casertana che produceva seta e quella scozzese che produ­ceva cotone e che fu al centro dell’esperien­za educativa di Robert Owen. Tuttavia, il ter­mine utopia - le sete di San Leucio, famose nel mondo, si possono trovare alla Casa Bianca, al Cremlino, al Quirinale - può essere sviante. Nel caso dello Statuto leuciano, in­fatti, al di là dell’esperienza comunitaria ed economica, si dovrebbe meglio parlare di anticipazione dello spirito dei tempi. La lettura in chiave di genere che Nadia Verdile fa - parità tra uomini e donne, dirit­to delle donne all’istruzione, alla successio­ne, alla proprietà, alla casa, alla tutela in ca­so di bisogno - rende giustizia a una sovrana che è passata alla Storia come una «donna crudele e sanguinaria», mentre la sua visio­ne dell’emancipazione delle donne oggi è re­altà. Scrive la studiosa: «Incredibilmente moderno, antesignano di un femminismo futuro che rivendicherà il diritto all’autode­terminazione, nella Colonia di San Leucio, la scelta matrimoniale non solo non spetta­va alle famiglie ma esclusivamente alle don­ne!». I convincimenti così moderni di Caroli­na - leggeva e scriveva quattro lingue, figlia della più illuminata delle imperatrici ed edu­cata a governare - furono il frutto dei primi venti anni del suo regno sui quali, però, po­co o nulla si indaga. Ciò che interessa è qua­si sempre il dopo: la reazione, non la rifor­ma. Eppure, la cruenta reazione, il passag­gio dall’illuminismo all’oscurantismo, dalla luce alle tenebre - per dirla con enfasi - non si capisce al meglio se non si considera pro­prio l’«utopia sociale» di Carolina: si sentì colpita nei suoi più profondi convincimenti di riforma dai suoi «amici giacobini» (oltre che dalla testa mozzata della sorella Maria Antonietta in Francia). Sentì tradite le idee e il suo femminismo: la rivoluzione tradiva la riforma. La Rivoluzione francese le sembrò giusta («Mi pare abbiano ragione» le fa dire Croce nella Storia del Regno di Napoli ), ma quando i Lumi si oscurarono per troppa lu­ce e subentrò il Terrore, Maria Carolina pas­sò - come nota giustamente il buon Guarini - «dal tempo del sogno illuminista al tempo dell’odio e del disprezzo (motivatissimi) per i suoi vecchi amici giacobini».

Giancristiano Desiderio

mercoledì 7 marzo 2012

Il Paese dei record troteschi.

«Tangenti per la Lega»: il tariffario delle mazzette

L’uomo che prima avrebbe gestito il traffico delle mazzette fra politici e imprenditori e poi ha messo nei guai gli uni e gli altri si chiama Michele Ugliola, originario di San Severo, professione architetto.

In realtà, secondo i pm della Procura di Milano, la sua attività principale è quella di collettore di tangenti e infatti lo scorso maggio finisce ai domiciliari nell’ambito delle indagini che hanno scoperchiato il sistema di tangenti a Cassano D’Adda.

Ma il nome di Ugliola spunta un po’ ovunque fra le carte delle inchieste: in quella milanese sulle bonifiche di Giuseppe Grossi, in quella di Monza sulle presunte speculazioni edilizie nell’ex area Falck a Sesto San Giovanni e in quella che a Cassano ha decapitato il consiglio comunale. E proprio gli approfondimenti nell’ambito di questo fascicolo hanno portato all’iscrizione di Boni nel registro degli indagati.
Decisive le rivelazioni dell’«architetto mazzetta», già coinvolto in Mani pulite (patteggiò una pena sotto i due anni per bustarelle a Bresso) e tornato a esercitare in gran spolvero il suo ruolo di «mediatore» fra politica e imprese. Il sistema di Ugliola è lineare e il tariffario redditizio: stando alle accuse, il cognato Gilberto Leuci (anch’egli indagato) avrebbe riscosso i soldi dagli imprenditori ritirando mazzette in contanti fino a 500 mila euro, quindi avrebbe passato il denaro all’architetto che provvedeva poi a distribuirlo ai politici.

Decine gli episodi svelati, solo per il Linificio - di proprietà dell’imprenditore Fausto Crippa (non indagato) - avrebbe incassato 3,5 milioni di euro, «di cui a me sarebbe venuto solo il 30%». E il resto andava ai politici. Tutto fatturato dal suo studio, peccato che per gli inquirenti non si trattava di parcelle bensì di tangenti.

«Qui si vogliono sistemare per tre generazioni», dice in un’intercettazione ambientale l’imprenditore Antonio Repici ricostruendo la richiesta di denaro per un appalto. «Vogliono 40 euro al metro quadro, su un totale di 170 mila metri cubi autorizzati, cioè 6,8 milioni di euro, di cui il 20% da versare subito». L’imprenditore rifiuta, anche se il suo commercialista Pierluigi Amati gli fa notare che «comunque, dappertutto, un imprenditore è costretto a dover riconoscere un quid in più alla politica».

E l’architetto fa da ponte, come spiega il leghista (indagato) Marco Paoletti, ex assessore locale e consigliere provinciale a Milano: «Ugliola - dice in un’intercettazione - è più un mediatore, è un intrallazzatore. Quando bisogna mediare tra imprenditori, tecnici e politici ci vogliono anche questi personaggi». Da fine luglio, quando ha iniziato a ricostruire gli affari illeciti di Cassano, Ugliola ha riempito pagine di verbali la maggior parte dei quali secretati. E che ora costituiscono l’architrave delle accuse nei confronti di Boni.

Claudia Guasco

martedì 6 marzo 2012

"Non compreremo prodotti del Nord": gli albergatori della costiera amalfitana in rivolta.

Gli albergatori della Costiera Amalfitana in rivolta
Altro che Unità d’Italia nell’anno delle celebrazioni per il centocinquantesimo anniversario. Nel cuore dell’unità, Roma, capitale d’Italia in questi giorni c’è una forza di governo che di paese unito ha una concezione tutta sua. Perché mentre Napoli e la Campania soffocano tra l’immondizia, ci sono ministri di questo governo che guardano l’Italia da Roma (esclusa la capitale, con molta probabilità) in su. L’emergenza rifiuti, altro non ha mostrato, in questo momento che un altro grande problema strutturale, o meglio la volontà di alcuni: abbandonare il sud in maniera incondizionata (sui problemi)ma nello stesso tempo utilizzarlo (per far soldi).

E mentre i cumoli d’immondizia fanno brutta mostra su network e giornali nazionali ed internazionali dalla Costiera Amalfitana arriva l’ultimatum: «Se la Lega blocca il decreto per superare l’emergenza rifiuti, noi bloccheremo l’acquisto dei prodotti dell’aziende del nord per le nostre strutture alberghiere e ricettive». La provocazione giunge direttamente da Positano, uno dei luoghi simbolo del turismo in Italia. A firmarla è Gian Maria Talamo, albergatore e presidente del consorzio Positano Life Style. «Noi al sud siamo il mercato del nord. Noi al sud acquistiamo molto tra beni e servizi dalle industrie del nord. Ed ora non siamo più disposti a sopportare che la Lega impedisca l’attuazione di un decreto». Talamo non ha dubbi ed è pronto a dichiarare davvero guerra ai leghisti. Sì, perché per il presidente del consorzio Positano Life Style è «tutta colpa di Bossi e company». Ma sgombriamo subito in campo. Al momento la Costiera Amalfitana non soffre dell’emergenza rifiuti. Almeno per ora. Da tempo, ormai, l’immagine della Divina è completamente slegata da quella prettamente partenopea che sta mostrando il peggio di se a livello nazionale ed internazionale. Ma per Talamo, seppur «il problema non toccherebbe Positano e la sua immagine non possiamo tirarci fuori. C’è un disagio ed una problematica enorme che va affrontata e risolta con il contributo di tutti». Tra l’altro, ricorda Talamo: «Sappiamo benissimo che ci sono responsabilità gravissime di molte aziende del nord in questa situazione». Insomma il concetto dell’albergatore è abbastanza chiaro:«Noi siamo il primo vostro mercato, voi avete responsabilità, voi governate (ricordiamo Bossi, Maroni e Calderoli sono ministri di questo governo, ndr) ma noi dobbiamo favorire i vostri affari economici, acquistano beni e servizi per le nostre aziende». Per Talamo, dunque, «Ora basta. Che ci sia una posizione netta. Non solo dalla Costiera Amalfitana ma da tutto il sud». «Se la Lega Nord – prosegue l’albergatore di Positano – dovesse impedire l’attuazione del decreto credo che allora sarebbe doveroso da parte di tutti noi avviare una campagna di sensibilizzazione al boicottaggio totale di tutti i prodotti industriali del nord Italia. Noi albergatori tra servizio cortesia e prodotti per la prima colazione, per esempio, ne consumiamo parecchi, ma in generale il sud Italia è il mercato principale per le aziende del nord. L’unica arma che ci rimarrebbe sarebbe questa e credo che le condizioni per attuarla ci siano tutte. Il sud prima è stato terra di conquista, poi un limone da spremere, poi una discarica di tutti i rifiuti tossici e radioattivi del nord italia e ora diventa zavorra. La misura è colma. Oramai non è più una questione di destra o sinistra, è evidente che è una questione nord-sud».

da:www.dauniaduesicilie.tk

Nord: falsi invalidi ed evasori

Amedeo Francesco Mosca

A Mantova un evasore totale che da anni gestiva un parcheggio completamente abusivo: sconosciuto al Comune, sconosciuto al Catasto, sconosciuto ai Vigili del fuoco, sconosciuto all'Asl, sconosciuto al Fisco. Tra Lombardia, Piemonte e Liguria un numero di immobili fantasma che un altro po' è pari agli abitanti di Afragola. A Pavia (70mila abitanti) più falsi invalidi che a Napoli (1 milione), con le pratiche imbastite da una funzionaria dell'Asl falsa invalida lei stessa. A Cassina de' Pecchi funzionaria del comune condannata a 6 anni per avere usato i conti dell'ente come se fossero suoi personali. Dulcis in fundo, il leghista Davide Boni, presidente del consiglio regionale della Lombardia (uno che non ha mai perso occasione per andare in televisione a dire che i meridionali sono mafiosi), indagato per tangenti incassate per fare aprire centri commerciali, per almeno 1 milione di euro riversate al suo partito (il resto intascate). Ma la capitale del malaffare è Napoli e queste cose accadono solo al Sud.

Nel Bresciano ventimila «case fantasma»

L'INDAGINE. Individuate dall'Agenzia delle Entrate con le nuove tecnologie. La rendita catastale accertata di questi immobili nella nostra provincia è di oltre 16 milioni. Le costruzioni abusive proliferano non soltanto al Sud, anzi: Enna e Caltanissetta ne hanno meno di noi
06/03/2012 E-MAILPRINT


Brescia. Dal cielo, con le nuove tecnologie, sono stati individuati 2 milioni 228.143 immobili fantasma nel nostro Paese, per un totale di rendita catastale finora accertata di 817 milioni di euro e rotti. Nel Bresciano gli immobili sono 20.077, per una rendita di oltre 16 milioni.
I numeri, determinati al 31 dicembre 2011, sono stati resi noti dall'Agenzia delle Entrate, che ha ricavato la scoperta dalla sovrapposizione delle ortofoto aeree ad alta risoluzione alla cartografia catastale. Mettendo a confronto le particelle di terreno, si è verificato che comparivano costruzioni non presenti nelle mappe e nelle banche dati del Catasto. Lì è iniziato il lavoro di accertamento che è stato quasi completato: mancano solo 368mila particelle che saranno analizzate nel primo semestre del 2012. Sono stati individuati 893.675 fabbricati con rendita; 856.846 particelle non richiedevano accatastamento, mentre su 108.958 si faranno altri controlli in collaborazione con gli enti locali. La stima è un maggior gettito per l'erario di 472 milioni, 356 in Imu, 110 in Irpef, 6 di imposta di registro sui canoni di locazione.
«QUESTO straordinario risultato è stato raggiunto grazie alle innovazioni della tecnica e all'impegno profuso dal personale», commenta il direttore dell'Agenzia del Territorio Gabriella Alemanno, che ringrazia per la collaborazione gli Ordini professionali. «Gli accertamenti sono utili per l'azione di contrasto all'evasione fiscale e sono un passo significativo verso la sinergia di battaglia fra l'amministrazione centrale e le decentrate, entrambe destinatarie di tributi immobiliari», aggiunge Fabrizia Lapecorella, direttore generale delle Finanze.
IN LOMBARDIA le particelle sospette più numerose sono state scovate nel Varesotto, oltre 37mila, seguito dalla provincia di Pavia con oltre 31mila e dalla Bergamasca con quasi 27mila. Il Bresciano si piazza al quarto posto con 20.077 particelle, 8.671 con fabbricati da rendita, 8.948 da non denunciare, 543 non ancora ben visualizzate. Ne restano da approfondire 1.915. Insomma, la convinzione che le costruzioni abusive realizzate di corsa nottetempo, con i familiari riuniti per arrivare al tetto prima di mattina, siano una esclusiva del Mezzogiorno non regge più. Caltanisetta o Enna ne hanno meno di noi. Però Palermo vanta un bel 62.868 particelle spiate contro le 11.014 di Milano. Nel Salernitano, la zona di gran lunga peggiore, sono 105.228, il doppio di Napoli. Anche la capitale non scherza con 68.764, e sono 61.672 a Cosenza, 54.361 a Lecce, 50.740 a Catania. Fra le province più virtuose compaiono Sondrio con 1.675, Verbania con 1.895, Biella con 2.340, Belluno con 3.678. Mancano, uniche in Italia, le province autonome di Trento e Bolzano. Naturalmente sulle cifre assolute pesa anche la dimensione territoriale, ma questa non suona ugualmente a discolpa dei bresciani, con più fantasmi dei milanesi. E veniamo alla quantificazione valoriale che i mattoni smascherati bresciani porteranno alle agenzie preposte, senza contare gli arretrati tributari previsti dalla legge. Le abitazioni scoperte, 3.837, hanno una rendita catastale di 1.689.351 euro; i 1909 magazzini di 337.864 euro; le 3.434 autorimesse di 246.481 euro; gli immobili definiti «altri» di 14.569.505.
IN TOTALE QUELLE che sono state riscontrate come unità immobiliari con dovuta iscrizione al catasto hanno una rendita di 16.843.200 euro. Se si guarda alla rendita, quindi al valore di questi edifici nascosti per non pagare le tasse, Brescia diventa seconda nella regione, preceduta da Milano, che ha sottratto una rendita di 17.399.141. E gli «angioletti» di Sondrio sono sotto il milione, con 908.822 euro.Anche in Italia, se si considera il valore catastale, emergono altre top: Trapani con 88 milioni e mezzo, Cuneo con oltre 52 milioni, Napoli e Frosinone vicine ai 30 milioni. Gli elenchi sono stati pubblicati all'Albo pretorio dei Comuni, negli uffici provinciali e sul sito Internet dell'Agenzia.COPYRIGHT
Magda Biglia

UN ANNO DOPO FUKUSCHIMA NON UNA SOLA VITTIMA (Oscar Giannino)

L’11 marzo sarà un anno dallo tsunami che si abbatté sui tre reattori in esercizio dei sei componenti la centrale nucleare Dai-ichi a Fukushima. Mi sottraggo volentieri alla gara catastrofale alla quale assisteremo sui media italiani. Scrissi allora per primo in Italia una stima della tenuta dell’impianto, a poche ore dal sisma e dallo tsunami che provocarono 15.848 morti accertati e oltre 3.300 ancora dispersi. L’impianto, pur anziano e non tarato per eventi di quella intensità, mostrava di aver retto abbastanza bene. Me ne vennero migliaia e migliaia di mail di insulti. Eppure, a distanza di un anno, non una sola vittima si deve all’incidente nucleare. La zona di evacuazione resta di 20 chilometri di raggio, decine di operatori della Tepco (l’azienda che gestisce l’impianto, ha perso 6,2 miliardi di dollari nel 2011) hanno assorbito, nei turni per contenere i danni, radiazioni pari al massimo consentito in numerosi anni di esposizione ordinaria, l’inquinamento marino da radionuclidi resta monitorato. Purtuttavia, ripeto: non UNA sola vittima. Io non ho cambiato idea. Non me ne importa un fico che mi ridano dietro. Penso che abbiano fatto bene Stati Uniti, Francia e Cina e altri 26 paesi a non deviare dai programmi nucleari. In Italia sappiamo com’è andata, nel referendum di poche settimane successivo.

Invece, ho vinto un’altra scommessa. A Radio24, agli ascoltatori ed esperti che mi trattavano da matto indicando la lista di paesi che avevano cambiato idea dopo Fukushima, a cominciare da quella Germania che spesso cito come esempio di virtù e che comunque è l’euroleader, replicai a un certo punto che in capo a un anno avrebbero cambiato idea di nuovo. A giudicare dai giornali tedeschi, la scommessa è vinta. Angela Merkel fermò subito i sette reattori più vecchi. Per poi, a fine maggio 2011, decidere l’uscita dal nucleare nel 2022, con tanto di ratifica dei due rami del Parlamento tedesco. L’obiettivo era di coprire tale quota sia tramite ottimizzazione e riduzione dei consumi del 10 per cento entro il 2020, sia aumentando la produzione da rinnovabilli. Già a giugno 2011 Angela Merkel ha dichiarato al Bundestag che, per garantire la sicurezza energetica nel prossimo decennio, la Germania avrà bisogno di almeno 10 GW, e fino a 20 GW di capacità addizionale, il più dei quali da carbone e gas. Senonché era un conto impostato sulla mera stima della capacità di generazione aggiuntiva. In realtà è molto più salato. Perché prima le centrali atomiche germaniche erano in prossimità dei concentramenti produttivi energivori. Ora la Germania ha scoperto che occorrono altre decine di miliardi di investimento sulla rete ad alta tensione, sugli accumulatori ad alta potenza, dal nord verso il sud e da est verso ovest. Sull’ultimo Spiegel potete leggere l’acrimonia con cui gli energivori tedeschi mettono nel mirino l’uscita dal nucleare. La bolletta energetica più pesante in Europa per il “no” post-Fukushima è della Danimarca, poi viene l’Italia. Ma al terzo posto viene la Germania, con un più 16,5 per cento. ThyssenKrupp, il maggiore produttore di acciaio tedesco, ha ceduto ai finlandesi di Outukumpu siti come quello di Krefeld. E subito i finnici hanno deciso di chiudere perché il costo dell’energia tedesco non conviene oggi e tanto meno converrà domani. Per i liberali della Fdp, contrari all’uscita dall’atomo, la deindustrializzazione tedesca è solo all’inizio. «Costi e offerta energetica sono diventati il primo rischio a minare la localizzazione di industrie in Germania», dice Hans Heinrich Driftmann, presidente delle Camere dell’industria e del commercio.

In Italia il ritornello verd-ambientalista è che la Germania sia il modello da seguire per la sua leadership tecnologica nelle rinnovabili, nonché per le ricadute occupazionali. Non è così. Lo Spiegel non è una testata di destra, ma scrive che non c’è segno dell’atteso miracolo verde. Molte aziende produttrici di turbine eoliche e pannelli solari chiuderanno, ora che il governo si è convinto a ridurre del 30 per cento gli incentivi. Non è stato facile. Per mesi si sono guardati in cagnesco, il ministro dell’Ambiente Norbert Röttgen (Cdu) e quello dell’Economia Philipp Rösler (Fdp). Röttgen era contrario ai tagli dei sussidi alle rinnovabili chiesti da Rösler. Ora ha vinto il liberale, ma per mesi la Germania non ha votato a Bruxelles sulle questioni energetiche, col governo spaccato a metà. Gli impianti ormai cominciano a chiudere. A Krefeld, dicono, il costo del chilowattora è triplicato rispetto al 2010. Analoghi problemi per tutti i gruppi attivi nella lavorazione dell’alluminio, del rame, delle leghe metalliche. Il ceo di ThyssenKrupp, Heinrich Hiesinger, dice che l’obiettivo non è di tornare al nucleare ma di ancorare lo sforzo tedesco a prezzi ed eventualmente anche a sussidi europei – sussidi, la terribile parola “greca”!

Bene, allora: un’altra scommessa, nell’anniversario di Fukushima. Vediamo che cosa davvero decide la Germania, appena passate le elezioni nella primavera 2013. Solo noi sbagliamo, risbagliamo e poi risbagliamo ancora peggio, o i tedeschi ci terranno compagnia?